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martedì 14 agosto 2012

Il Partito del Merito: una nuova politica per riportare in alto il nostro Paese


di Alessandro Santini

Anno 2001, quarto liceo scientifico. In uno di quegli ultimi minuti, dell’ultima ora, di quei sabato mattina che non finiscono più, io ed il mio compagno di banco Andrea scherziamo su cosa faremo da grandi. Lui, appassionato di armi ed esercito, la spara grossa: “Ti vedo come Presidente del Consiglio e, una volta al governo, mi chiamerai come Ministro della Difesa”. Sullo stile del cartone animato dei due topi che vogliono conquistare il mondo (“il Mignolo con il Prof.”), incominciamo a pensare anche al nome che avrebbe avuto il partito. Si discute per qualche minuto, fino a quando squilla la campanella che ci salva dal ricovero coatto.

Sette anni più tardi, l’aula magna della mia università è piena. Roger Abravanel, per trentacinque anni consulente d’impresa, si improvvisa scrittore e presenta il suo libro, “Meritocrazia”. L’argomento mi è molto caro, i dati e grafici presentati mi stupiscono, ma poi l’esame di turno mi distoglie dal comprare e leggere il saggio.

Anno 2012, sono da un po’ nel mondo del lavoro e sul tavolo di un collega mi attira una copertina rossa. Lo riconosco, è lui: “Meritocrazia!”. Il libro ha avuto un successo strepitoso: quattro ristampe, due cortometraggi prodotti sull’argomento, nascita di blog e forum su Internet, autore coinvolto in circa 100 convegni, 50 trasmissioni TV e collaborazioni con ministeri. Stavolta l’esame di turno non può distrarmi: tra un allenamento di calcio e l’altro la sera ricavo il tempo e leggo tutto d’un fiato questo libro, che non tradisce le aspettative.

Siamo a metà 2012 e, a distanza di più di 10 anni dal mio quarto liceo e a quattro anni dall’uscita del libro, molti dei problemi sottolineati da Abravanel sono ancora lì a marcire, ad appuzzire l’aria di un’Italia che ha intravisto con i suoi occhi l’abisso del fallimento.

E allora, per risvegliare un po’ la classe politica e soprattutto le coscienze dei cittadini, ho pensato di riprendere a mio modo i tratti salienti di questo libello e sbatterli su questo blog, sperando abbiano l’effetto di due sberle date in faccia ad uno scolaretto un po’ troppo furbetto e svogliato. Un bignami del saggio che riprende ed interpreta i suoi nove capitoli, capitoli che pesano come un macigno, ma che nell’ultima parte, ci restituiscono anche un po’ di speranza. Perché non vogliamo e non possiamo pensare che l’Italia rimanga a lungo, su certi aspetti, fra le ultime della classe.


1. Il secolo della meritocrazia

Meritocrazia è un termine coniato dal sociologo e politico Michael Young nel suo “Rise of Meritocracy” (1958) e significa semplicemente che i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia, origine, sesso ecc… Si basa su due valori fondanti: la piena responsabilizzazione degli individui nel cogliere oneri ed onori delle proprie azioni e le pari opportunità per tutti nel confronto di tale sfida; eguaglianza come “eguaglianza di opportunità”.

Concetti di merito sono sempre esistiti, anche in passato: Gengis Khan sterminava gli eserciti sconfitti, ma risparmiava i migliori generali, offrendo loro di guidare le proprie truppe. Il console Mario, nel 100 d.c., ordinò che non solo i patrizi, ma chiunque dotato di talento guerriero potesse prendere posizioni di comando. Napoleone parlava di “carriere aperte ai talenti” e “strumenti in mano a chi li sa usare”. Jefferson scriveva ad Adams nel 1813: “esiste un’aristocrazia naturale degli uomini, la base sono la virtù ed il talento”.

In Italia, la morale comune indulge con chi sbaglia e condanna la disuguaglianza. Si è contro ogni forma di misurazione obiettiva e quantitativa del proprio potenziale: si accettano le classifiche solo nel calcio.
Se l’ingrediente principale dello sviluppo non sono le fabbriche, ma il capitale umano, l’Italia si è mossa poco e male su questo fronte ed oggi si trova stretta fra stipendi greci e prezzi tedeschi: il PIL non cresce, i prezzi sono sempre più alti, il potere d’acquisto diminuisce.

L’immagine dell’Italia all’estero (inchiesta Economist di anni fa) è passata da “caos, inaffidabilità, mancanza serietà ecc…” a “stasi, anzianità, tristezza ecc…”. Se all’italiano fa anche un po’ piacere essere visto come disordinato, creativo, maestro nell’arte di arrangiarsi ed individualista, meno piacere gli fa essere dipinto come vecchio, immobile e triste.


2. Anatomia della meritocrazia

L’equazione del merito, espressa da Young, è M = I + E . I sta per intelligenza, capacità cognitive, abilità nel capire, interpretare, usare in modo produttivo le informazioni, capacità di intelligenza emotiva, leadership e forza di carattere (merito razionale). E sta per effort, ovvero sforzo, impegno, etica, comportamenti della persona, l’essere padroni del proprio destino, il non mollare mai (merito morale).

Il meccanismo essenziale deve essere quello della concorrenza e l’attacco alle rendite di posizione. Per azzerare i privilegi, bisogna partire da quelli della nascita e ciò significa elevate tasse di successione: si rinuncia a posizioni di monopolio economico o sociale perché si ritiene che il confronto tra cittadini sarà giusto e tutti avranno le stesse possibilità, perché come diceva Benjamin Franklin “coloro che si vantano dei propri antenati stanno pubblicizzando la loro insignificanza”.

La meritocrazia ammette disuguaglianza sociale, aumenta la forbice tra chi è più ricco e più povero, ma deve anche aumentare la media del benessere di tutti, l’intera società deve beneficiare della leadership migliore che essa produce, lo sviluppo economico deve alimentarsi grazie ai migliori selezionati nella società.
Se si ha fiducia nel merito, nella società i giovani si impegnano per crescere, i migliori risalgono la scala sociale e si crea leadership sicura di sé che promuove un contesto concorrenziale; nell’economia, tutti accettano la concorrenza, cresce l’economia e crescono le opportunità, i consumatori ed i giovani colgono queste opportunità e la fiducia nel merito si rafforza sempre più, innescando un circolo virtuoso.

Purtroppo l’Italia è da anni intrappolata in un circolo vizioso, dove nella società i giovani spesso non si impegnano, si fa carriera per conoscenze ed anzianità, si crea leadership anziana e non meritevole che crea contesto per mantenere lo status quo; nell’economia, non si accetta la concorrenza, l’economia non cresce, non ci sono opportunità, i consumatori non hanno potere ed i giovani meritevoli non hanno occasioni. I pochi che rifiutano tale circolo emigrano, rendendo ancora meno meritocratica la società italiana.


3. Le paure ed i ritardi del merito

Meritocrazia è associata al concetto di concorrenza, che porta con sé lo scontro competitivo tra individui e l’idea che ci possano essere dei perdenti. A ciò, si aggiunge la mancanza di fiducia data dal fatto che le pari opportunità non sono pienamente realizzate.

In Europa, c’è più enfasi sull’eguaglianza sociale che sulla mobilità sociale e l’eguaglianza è misurata in modo statico, rapportando la ricchezza dei più ricchi con quella dei più poveri (indice di Gini). In realtà, se si misura la disuguaglianza dinamica e si mettono insieme persone che sono ad uno stadio differente della propria vita biologica e professionale, i veri poveri sono quelli che restano poveri molto a lungo perché c’è bassa mobilità sociale. E su questo tipo di disuguaglianza l’Italia raggiunge livelli altissimi, molto più alti di quelli anglosassoni, configurando così una società immobile e profondamente disuguale.

I Paesi scandinavi hanno dimostrato che conciliare meritocrazia con solidarietà, welfare e protezione sociale, senza falsare la concorrenza, è possibile e determina benessere.


4. Le fabbriche dell’eccellenza

Le fabbriche di eccellenza sono posti che esaltano il merito, organizzazioni che attraggono i migliori giovani del paese, ne accelerano lo sviluppo personale e professionale, li proiettano in posizioni di leadership della società. Ci sono nell’università, nel servizio militare, nella pubblica amministrazione e nelle imprese.
Fra le università spiccano quelle dell’Ivy League americane (Yale, Princeton, Brown, Columbia, Cornell, Pennsylvania, Dartmouth, Harvard), che hanno prodotto gran parte dei presidenti USA: Harvard per esempio ammette solo il 9% di chi fa domanda, le giornate di recruitment con le aziende sono organizzate in modo impeccabile, dato che l’occupazione dei neo-laureati è la cosa che sta più a cuore dell’università.

Nel servizio militare, il modello è Israele, obbligatorio per tutti i diciotenni, tre anni per i maschi e diciotto mesi per le donne, con la possibilità di prendere la laurea durante il servizio, nelle migliori università, a spese dello Stato. Esiste un programma di “eccellenza accelerata”, il Talpiot, che seleziona cinquanta superdotati tra cinquemila giovani reclute, che poi entrano nelle unità di elité della difesa per rafforzarsi fisicamente e psicologicamente.

Nella P.A., i riferimenti sono l’ E.N.A. francese (Ecole Nationale d’Administration) e l’amministrazione di Singapore; quest’ultima, con test nazionali standard, inizia al quarto anno delle elementari a selezionare il 6-7% dei migliori da indirizzare ad un programma che li forma fino all’università, dove sono previste borse di studio per percorsi formativi orientati all’amministrazione e allo Stato. Singapore è l’unico paese che ha un joint program con la Kennedy School of Government di Harvard e si può seguire un semestre all’Insead, una delle migliori business school europee. Altri programmi prevedono poi training e rotazione di funzioni tra diversi ministeri, possibilità di dibattere con i più alti rappresentanti dello Stato, stipendi di livello e percorsi di carriera rapidi (fast-track).

Nelle imprese, le fabbriche di eccellenza sono quelle in grado di vincere la guerra dei talenti: le imprese americane sono molto spesso le migliori nella gestione delle risorse umane, che appare invece una chiara debolezza delle imprese italiane (ricerca McKinsey-London School of Economics).

Nelle imprese meritocratiche, la retribuzione è basata sulla persona e sulla sua performance, si guarda non solo all’anzianità, alla retribuzione degli altri lavoratori, alla posizione, ma anche e soprattutto al valore di mercato e quanto il professionista può guadagnare in altre aziende.
L’assunzione non avviene solo quando si libera una posizione, ma internamente ci sono già tre-quattro candidati che possono prendere il posto vacante ed i talenti si corteggiano prima che concludano l’università, offrendo loro opportunità professionali al limite delle proprie capacità.
Continui i feedback ed il coaching: si indicano i punti di debolezza del dipendente e si suggeriscono iniziative per lavorarci. Si differenzia, senza discriminare: si identificano i meno bravi, i più bravi e gli assi. Di solito questi sono il 10-20% del personale, ottengono performance eccezionali ed ispirano gli altri: la differenza di retribuzione rispetto alla media si aggira sul 40% (mentre nelle aziende normali è il 10%), perché se i migliori se ne vanno, l’azienda collasserà e molti perderanno il posto di lavoro.

Nel campo delle professioni, uno dei punti di riferimento è McKinsey, società leader di consulenza direzionale : 1 milione di CV selezionati per 1.500 persone, i figli dei partner non possono fare domanda di assunzione, se dopo 6-7 anni non si diventa partner bisogna lasciare (up or out); i candidati partner vengono valutati da un comitato, ma prima ancora si fanno colloqui con 20-30 persone che hanno lavorato con il candidato, mentre in un’impresa normale il giudizio del capo è il 90% della valutazione.

In Italia gli ex-McKinsey guidano le principali banche ed imprese italiane, hanno creato nuove professioni e nuovi business, perché la società di consulenza non aveva difficoltà ad assumere i migliori, mentre negli USA doveva e deve lottare contro G.E., Goldman Sachs, B.P. ecc… Qualcuno li accusa di essere tecnocrati stakanovisti e di pensare solo alla “creazione di valore”, ma l’autore del libro ha lavorato 35 anni lì e sottolinea il fatto che per il successo non conta solo la competenza tecnocratica, ma soprattutto la leadership e l’adesione a sistemi di valore e merito.


5. La società italiana: ineguale ed ingiusta

L’immagine che si ha dell’Italia è di un paese poco concorrenziale, ma giusto e solidale. Niente di più sbagliato: i dati dicono il contrario.
Se, come anticipato nel paragrafo 3, consideriamo l’indice di Gini (rapporto fra il 10% più ricco della popolazione su 10% più povero), l’Italia misura 11,6 contro il 14 dell’UK, 16 degli USA e 8 della Danimarca (dati 2006, Nazioni Unite): è quindi più ineguale dei paesi scandinavi, ma più giusta di quelli anglosassoni.
Se però consideriamo la percentuale di persone che da operaie arrivano a posizioni di responsabilità, siamo al 3% (contro il 13% degli USA e 14% della Svezia) e la percentuale di coloro che nascono da una famiglia operaia e raggiungono una classe sociale più alta, siamo al 13% (contro il 19,5% della Svezia e il 21% degli USA): la mobilità intragenerazionale (o di carriera) e la mobilità intergenerazionale è bassissima. La possibilità di mutare significativamente la propria posizione di reddito o sociale durante la vita o quella di trovarsi in una classe reddituale diversa da quella della propria famiglia è in sostanza ridotta all’osso; pochi promossi e ancora meno bocciati, ognuno rimane al suo posto, i poveri restano tali tutta la vita, così come i ricchi: si chiama immobilità.

Un paese che tassa il reddito da lavoro e non quello da capitale e dove le donne non lavorano (40% tasso partecipazione al lavoro, contro 60% obiettivo UE; 84° posto nella classifica mondiale del “Gender Gap”) non può che avere un’elevata disuguaglianza. Se a ciò aggiungiamo una bassa mobilità, possiamo considerare l’Italia come probabilmente la società più diseguale ed ingiusta del mondo occidentale.

Lo scienziato politico Francis Fukuyama per descrivere un modello di società “senza fiducia” scelse l’Italia: poca fiducia nelle istituzioni, numero di leggi senza uguali, società basata sul codice civile, uso costante della magistratura (che è la più lenta del mondo occidentale), evasione fiscale, criminalità organizzata, emigrazione di talenti, perfino scandali nello sport nazionale, il calcio. Chi sbaglia non paga e chi merita non viene premiato: manca totalmente la fiducia nella “E”, il merito morale descritto da Young.

Alcuni dati per inquadrare la cultura del demerito italiano: quasi la metà dei giovani italiani pensa che lavorare meglio degli altri non giustifichi retribuzioni maggiori (contro meno del 10% di USA, UK e Australia). “Lo Stato deve assicurare a chiunque un reddito garantito di base” (sondaggio 1980): risposero d’accordo l’80% degli italiani, contro il 66% dei tedeschi e 33% degli americani. “Sua figlia è brava, diligente ed intelligente, ma ha un difetto da correggere subito: ha troppa voglia di primeggiare”: sono le parole di una maestra ad un genitore durante i colloqui a scuola.

In Italia, il 97% dei maturandi supera l’esame, i 110 e lode si sprecano (un terzo dei laureati), l’intelligenza umana e le soft skills sono poco diffuse, il merito non viene misurato e l’unica quantità misurabile diventa l’esperienza: da qui la gerontocrazia nella scuola, nelle università, nelle aziende.
Mentre negli USA le raccomandazioni sono fatte da chi conosce bene il candidato e quindi spende tempo per descriverlo e segnalarlo perché ha caratteristiche adeguata per una certa posizione (c.d. recommendation letters), in Italia servono per falsare procedure competitive, per dare un posto che a volte neanche esiste, perché contano lobby, nepotismo e appartenenza.


La famiglia italiana è un altro aspetto che fa prevalere la logica dell’appartenenza rispetto a quella del merito: vedi la criminalità organizzata, incardinata spesso su basi familiari allargate. Lo Stato è debole e non dà possibilità di sviluppo alternative alla protezione data alla famiglia, anzi la rafforza con un welfare impostato sul capofamiglia che lavora e che con il suo reddito mantiene tutti (o quasi): gli garantisce piena occupazione, reddito e pensione (fino a poco tempo fa) a 58 anni.

La donna è assorbita completamente dalla famiglia e colpevolizzata quando vuole realizzarsi nel lavoro; il welfare dei paesi meritocratici invece aiuta i giovani e le donne a prendere rischi per crearsi e sfruttare le opportunità.
Fra i miti della repubblica romana, c’è quella del console Lucio Giunio Bruto che condannò a morte i propri figli, assistendo all’esecuzione, per aver violato le regole dello Stato. Hegel, nella filosofia del Diritto, scriveva: “nello Stato gli individui sono nominati in base alle loro capacità obbiettive, non in base ai privilegi della natalità…contano le capacità e le abilità misurate oggettivamente…”. Oggi la fiducia degli italiani nei politici e nella pubblica amministrazione è ai minimi storici: lo dimostrano il successo di libri come “La casta” e i voti di protesta al “Movimento 5 stelle” di Beppe Grillo.


6. Un’economia immobile

Dal 1992 in poi, non potendo far crescere a dismisura il debito pubblico e non potendo contare sulla svalutazione della lira, l’economia italiana ha iniziato a crescere meno della media europea, fino a fermarsi completamente.
L’economia italiana è bloccata non solo perché ci sono alti costi dell’energia e del lavoro, pessime infrastrutture, pressione su imprese troppo alta, ma perché manca la concorrenza e la deregolamentazione, soprattutto nei settori più innovativi.
La mancanza di produttività, soprattutto nei servizi, non aumenta il reddito perché non si cresce in nuovi settori, non si creano posti di lavoro, non aumentano gli occupati; il potere di acquisto continua a diminuire perché i prezzi restano alti per assenza di concorrenza. L’elasticità dei prezzi alla domanda di servizi è inoltre molto maggiore che nelle attività manifatturiere: se una telefonata costa meno si telefona molto di più, se il prezzo dei frigoriferi scende non se ne mette per questo uno in casa.

Il recupero della produttività del settore manifatturiero da solo non risolve quindi il problema della crescita, anche perché una delle leve per recuperare produttività è la delocalizzazione, che non crea lavoro, anzi. Nelle economie avanzate, invece, i servizi rappresentano gran parte dell’economia, crescono e creano lavoro: succede persino in Cina.

L’Italia è incapace di crescere e creare concorrenza nei nuovi settori dell’economia post-industriale, come il commercio, il turismo, la distribuzione farmaceutica, le banche, le telecomunicazioni, i trasporti pubblici locali, i settori ad alta tecnologia e c’è una malsana sudditanza della politica alle imprese: associazioni italiane di imprese sono diventate un “benchmark” per le associazioni di tutto il mondo, sono loro che guidano l’economia e non il cittadino-consumatore che assiste inerme e non è mai rappresentato negli accordi tra produttore e sindacato.

Kennedy stesso diceva: “nella nostra economia, il consumatore è l’unico soggetto che non ha un lobbista potente alle spalle: ebbene io sarò quel lobbista”. In Italia, i cittadini stessi non capiscono i benefici di una maggiore concorrenza, anzi temono che la liberalizzazione faccia perdere il loro posto di lavoro, perché vale il principio NYMBY, not in my backyard, non nel mio cortile; spuntano ovunque resistenze individuali e locali a progetti di interesse collettivo, perché non si ha fiducia che la concorrenza pervada tutta l’economia, senza privilegi e sconti per nessuno.

L’evasione fiscale è la più rilevante del mondo industrializzato, incentivando le imprese poco produttive e favorendo la rendita a scapito del lavoro. Il numero degli occupati della Guardia di Finanza è il 60% in meno rispetto all’UK, dove il sommerso è la metà, e il merito degli ispettori non è misurabile, mentre negli USA, dove si può andare in galera per evasione, l’Agenzia delle Entrate fa selezionare gli ispettori dalle più prestigiose società di “cacciatori di teste” internazionali.

Innovazione e ricerca

Elemento chiave per lo sviluppo economico è, oltre il capitale umano e le liberalizzazioni, l’innovazione. L’innovazione generata dalla ricerca non ha bisogno di massicci investimenti pubblici, ma di capitale privato che lavora con poche università eccellenti, capitale che può provenire sotto forma di technology transfer da imprese o di seed capitale (capitale di semina) dai venture capitalists. E’ la validità della tecnologia che attira il capitale, non il contrario; quando ci sono eccellenza e merito, i soldi arrivano ed i risultati pure: i laureati del M.I.T. hanno fondato 4.000 aziende, con fatturato complessivo di 250 miliardi di dollari, creando oltre un milione di posti di lavoro.

In Italia i venture capitalists non esistono, mentre sono nati fondi di private equity di estrazione bancaria che finanziano sviluppo di imprese familiari in settori tradizionali. In Italia, il numero di brevetti per milioni di abitanti è metà della media UE, un quarto della Germania, il numero delle start-up high tech è un settimo di quello della Francia, il numero di dottorati in scienza ed ingegneria è un quarto di quello della Francia, un quinto di quello della Germania, un settimo di quello della Svezia.

Le imprese familiari italiane

L’azionariato familiare ha prodotto imprenditori geniali che però raramente sono stati capaci di trasformare le proprie famiglie in azionisti meritevoli della proprietà di grandi imprese globali.

L’Italia ha leader regionali in settori di servizio non ancora globali (es. Enel per energia, Unicredit per banche), leader globali in settori di nicchia (es. Luxottica, Brembo, Dallara…), altri grandi aziende in settori come quello petrolifero, come gas e auto, ma non leader (es. Eni o Fiat): non abbiamo un leader globale in un grande settore dell’economia, nella classifica Fortune 500 del 2006 l’Italia contava solo 10 imprese, contro le 34 del Regno Unito, le 37 della Germania, le 38 della Francia e le 162 degli Stati Uniti.

Meno di un’impresa familiare su cinque arriva alla terza generazione e quelle che riescono coniugano il meglio della cultura familiare (impegno a medio-lungo termine e spirito di iniziativa) e la meritocrazia; in Italia invece molto spesso si sostituisce il merito con i legami familiari, trasferendo la proprietà delle imprese ai figli come avveniva nelle società agricole, mentre il figlio dovrebbe essere “migliore dell’alternativa non familiare”.
Anche se la scelta del successore è quella giusta e il giovane si dimostra all’altezza, nessuno gli dà credito perché il meccanismo che l’ha portato al vertice non è stato trasparente. Spesso neanche il padre è stato sicuro della propria scelta e resta in azienda, contribuendo alla gerontocrazia imperante: in media chi guida le imprese familiari ha più di 60 anni, molti presidenti e amministratori delegati hanno settanta-ottanta anni, spesso diventano presidenti onorari, mantenendo però un ruolo operativo.
L’imprenditore non molla perché non saprebbe cos’altro da fare, visto che la meritocrazia del no-profit privato non fa parte della nostra cultura e non ci sono incentivi per alimentarla. Il servizio alla comunità e alla politica non riconoscono il merito e non saprebbero valorizzare un imprenditore che si vuole impegnare nel sociale, i CDA di università e scuole non sono l’ideale per utilizzare le abilità imprenditoriali, i giovani con idee high-tech da finanziare come business angels sono pochi: restano l’impresa di famiglia e la squadra di calcio o basket locale.

Nelle società anglosassoni, i leader delle imprese si rinnovano, utilizzano il proprio genio per eccellere in una nuova iniziativa, creano un altro business, finanziano il no-profit, entrano in politica, si occupano di arte, si iscrivono all’università: Bill Gates, con 10% di Microsoft, è padrone assoluto dell’azienda e è andato in pensione per occuparsi della sua fondazione. Nei passaggi generazionali, l’imprenditore ha già una certa abitudine ad avere soci di capitale, perché assistito da fondi di venture capital o development capital che hanno già dato un loro contributo in termini di strategia, governance, gestione risorse umane ecc…
I
n Italia la strategia è tarata sulle aspirazioni della famiglia, che si preoccupa più del proprio prestigio a Bologna o Verona più che dei suoi clienti a Londra o Pechino; la guerra dei talenti è quasi sempre un fallimento perché l’assenza di meritocrazia spaventa i più bravi. Le prime dichiarazioni di Marchionne appena arrivato alla guida di Fiat sono state: “il problema dell’azienda non è quello di non saper fare le auto, ma di non aver prodotto leader”.
Gli imprenditori che hanno compreso l’importanza del merito per realizzare un sogno che sopravviva alla loro genialità sono molto rari.


7. Uno Stato senza merito

Uno studio della Banca Mondiale del 2007 sull’efficacia dei governi aveva dato all’Italia un voto di 0,97 nel 1996, voto minore rispetto ad alcuni paesi sviluppati (Germania, Francia, UK, USA…), ma maggiore di un secondo gruppo di paesi (come Ungheria e Grecia). Nel 2006, questo voto è crollato a 0,36, a livello di un terzo gruppo di paesi come Oman, Buthan, Croazia.

Se l’economia di mercato è immobile, quella del servizio pubblico è inchiodata. Secondo l’IMD World Competitiveness (business school di Losanna) l’Italia è al 42° posto su 60 (ricerca 2011), anche se tolte le spese per interessi e pensioni, la spesa pubblica italiana in base al PIL è minore rispetto ad altri paesi europei (28% contro 32% media UE) ed il numero dei dipendenti pubblici sul totale della popolazione ha percentuali inferiori a molti paesi dell’UE. Non è quindi un problema di spesa, ma di produttività e la produttività non si ha licenziando migliaia di fannulloni, ma trasformando la macchina pubblica con criteri meritocratici simili a quelli dell’impresa privata.

Lo Stato italiano fino ad oggi ha fallito miseramente nelle politiche redistributive, assecondando lavoratori protetti da sindacati che potevano andare in pensione prima dei lavoratori europei. Non ha attaccato i privilegi a scapito di consumatori e giovani disoccupati, non ha ridotto l’evasione fiscale, falsando le regole di mercato, ha fallito come erogatore di servizi pubblici di qualità, come la giustizia (tempi medi risoluzione inadempienza contrattuale sono 3,3 anni, contro gli 11 mesi della Germania; più alto tasso sovraffollamento carceri paesi OCSE) che ha indebolito il merito morale su cui poggia il circolo virtuoso del merito.

Fallimento educazione pubblica

Lo Stato ha fallito anche nel vero campo di battaglia della meritocrazia, l’educazione pubblica e l’università. I sistemi meritocratici selezionano e formano i migliori per creare dei leader in grado di realizzare appieno le loro potenzialità e aumentare le opportunità ed il benessere di tutti. L’obiettivo non è immettere nozioni (pubblica istruzione), ma estrarre il meglio di ogni essere umano (pubblica educazione, da e-ducere). La globalizzazione del sapere ha superato quella dei prodotti, delle imprese e dei capitali, ma l’Italia non ha istituzioni eccellenti a livello mondiale (nessuna università fra le prime cinquanta al mondo, indagine Times; 20 sono negli USA, 8 nell’UK).

L’idea che ci sono troppi laureati è un falso mito: l’Italia produce 150.000 laureati l’anno (un terzo della media Ocse) contro i 300.000 che servirebbero; negli ultimi anni sono aumentati gli atenei e le iscrizioni, ma non il numero dei laureati, con un 53% di tasso d’abbandono (contro 29% media Ocse). Questo perché chi si iscrive non ha una preparazione adeguata e non se lo merita (non ci sono dei test che definiscano degli standard), non viene adeguatamente guidato e formato, non è motivato dato che le prospettive di un lavoro meglio retribuito non sono certe.

Mentre l’educazione negli USA è premiata con successo economico (reddito medio atteso di 38.000$ per una laurea 5 anni, 50.000$ per un master, 70.000$ per un dottorato), i neo-laureati italiani hanno la probabilità di restare disoccupato un terzo più elevata rispetto ad un non-laureato e lo stipendio è tra i più bassi nelle classifiche mondiali, anche perché hanno ricevuto una formazione troppo orientata alla teoria deduttiva e alle nozioni e poco al problem solving induttivo e ai comportamenti in azienda; mancano poi le grandi aziende che sono il motore della domanda di laureati.

All’estero, tra borse di studio e prestiti d’onore, oltre il 50% non grava sulla propria famiglia, mentre in Italia solo l’8%: l’assenza di test standard nazionali che valutino oggettivamente il merito e l’evasione fiscale rendono impossibile disporre di strumenti di selezione che coniugano merito individuale e basso reddito familiare.

I motivi principali della scelta dell’ateneo peri i ragazzi italiani è la vicinanza a casa (60%) e non il prestigio dell’ateneo (30%) e quasi tutti gli studenti (82%) sono iscritti in un’università distante meno di 100 Km da casa. I cervelli sono in continua fuga e, cosa ancor più grave, non ci sono cervelli in arrivo; per 7 laureati emigrati italiani c’è un laureato straniero che arriva in Italia, i professori italiani stimati all’estero sono tra i 6.000 e i 10.000, mentre le parti meno nobili del corpo accademico rimangono e si riproducono dentro il sistema: il 30% dei top accademici italiani ha più di 65 anni contro lo 0,5% che ha meno di 35 anni (contro 7% degli USA e 18% dell’UK).
I
l merito degli studenti è molto legato al merito della scuola o dell’ateneo dove ha studiato, che però prende finanziamenti solo in base al numero degli iscritti, senza incentivi a miglioramenti della didattica e della ricerca. Meriti e incentivi assenti anche nell’educazione pre-universitaria. Non si cercano le migliori scuole, ma quelle più vicine, quelle dove vanno amici e persone della stessa classe sociale: i ragazzi, una volta instradati verso un tipo di scuola, vengono eterodiretti verso un programma di formazione stabilito centralmente, senza possibilità di assecondare le inclinazioni individuali. Gli studenti più bravi devono progredire pazientemente, al ritmo dei più lenti, la classe deve imparare, tutti insieme: il risultato è un abbassamento generale, nessuno emerge.

Gli insegnanti sono i peggio pagati del mondo industriale: dato che non è possibile pagare di più i migliori, perché non si capisce quali sono, si pagano tutti poco anche perché l’insegnamento è un obiettivo secondario rispetto a dare lavoro a milioni di professionisti: si parla sempre di precariato, mai di merito di professiori e scuole, che poi determinano il merito degli studenti.

Nelle scuole del merito, un maestro di matematica è considerato bravo se una percentuale alta dei suoi studenti passa al livello 4 (“più che accettabile”) di un test nazionale standard; in Italia la bravura di un’insegnante è soggettiva e la morte del merito nasce quando questo non è misurabile. L’unico driver è il tempo (il professore anziano guadagna di più) ed il numero degli iscritti (che determina il finanziamento pubblico): la formazione degli insegnanti è svolta da enti di aggiornamento del ministero e da persone legate a politici e sindacati, e non dai più meritevoli.

Mentre in Italia l’insegnante è quasi sempre solo, in Finlandia (che ha fra le scuole migliori al mondo), tutti gli insegnanti devono avere un master, i processi di selezione sono molto duri, gli insegnanti lavorano insieme, collaborano nella preparazione delle lezioni, i migliori entrano in aula come osservatori e poi danno feedback oppure fanno formazione agli insegnanti con meno di 2 anni di anzianità.

In un sondaggio sulla preoccupazione degli italiani, la scuola è solo al 7% (contro il 30% di sanità e lavoro), nove genitori su dieci non si presentano alle elezioni per gli organi collegiali delle scuole (le riunioni di condominio hanno una partecipazione più alta); l’italiano si preoccupa delle cose che possono migliorare la vita nel breve termine: invecchia e pensa a spendere nella sanità, lavora e sa che i sindacati proteggeranno il suo posto.
Nessuno vede le potenzialità di un sistema educativo che selezioni e formi i migliori e se ciò non interessa agli italiani, interessa ancora meno ai politici che si concentrano sulla precarietà degli insegnanti, perché il ritorno in termini di voto è superiore.


8. I semi del merito

Siamo un Paese da buttare? Tutto va storto? Assolutamente no.

Produciamo il 3% della ricchezza mondiale e deteniamo il 6% di quella ricchezza, abbiamo un sistema sanitario che, con tutti i suoi difetti e lunghe liste di attesa, rimane ancora fra i migliori al mondo, ci riconoscono uno stile di vita unico e realtà produttive d’eccellenza che tutto il mondo ci invidia, microsistemi che potrebbero fiorire e offrire un esempio, contagiare altri ambienti in modo che pian piano fioriscano interi giardini di meritocrazia, passando dall’era dei diritti ad anche quella delle opportunità.

Nell’università uno dei punti di riferimento è la Normale di Pisa: 70 posti per 1000 domande, corsi durissimi di lettere e filosofia e scienze matematiche, fisiche e naturali che hanno prodotto negli anni 3 Presidenti del Consiglio (Ciampi, Amato, D’Alema), 2 della Repubblica (Gronchi e Ciampi) e 3 Nobel (Carducci, Fermi e Rubbia).

Nel campo della ricerca scientifica, seme del merito è l’I.I.T. (Istituto Italiano di Tecnologia), con sede a Morego, vicino Genova, che sviluppa singoli progetti con un team di scienziati, formando nel contempo studenti per il dottorato ed il post-doc. Con i suoi 3 dipartimenti (neuroscienze, drug discovery e development, robotica) ed una facility trasversale (nano-biotecnologie), oltre 200 scienziati con un’età media di 29 anni guidati da direttori prestigioni e remunerati con retribuzioni a livello mondiale, ha registrato 5 brevetti in joint venture con università associate, realizzato oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali e ora sta lavorando su un occhio artificiale ed un “dna chip”.

Nel mondo dell’impresa, una bella realtà è Luxottica: da PMI che faceva montature per occhiali ad Agordo nel bellunese si è trasformata in colosso globale proprietario di catene di ottica americane. All’eccellenza del design italiano ha associato quella della vendita al dettaglio americana, alla cura artigianale dei dettagli ha aggiunto la competenza della grande produzione, alla curiosità ed intuito imprenditoriale ha messo in parallelo la disciplina manageriale, al sistema dei valori della famiglia ha affiancato i valori meritocratici della grande impresa mondiale, con metodi di stampo anglosassone.
La proposta di valore per i talenti è “diventare imprenditori in un’azienda globale che offre opportunità di rinnovarsi continuamente”: si può lavorare una parte del mondo per poi trasferirsi in un’altra, si può partecipare a iniziative di volontariato, come la donazione di occhiali usati ai bisognosi di tutto il mondo ecc…I talenti sono valutati non solo in base ai risultati che ottengono, ma anche sul come li ottengono: sono fattori negativi l’arroganza, la chiusura verso gli altri, l’eccessivo individualismo, mentre si considerano fortemente la capacità di cercare soluzioni, di sperimentare, la voglia continua di migliorarsi, l’apertura mentale, l’empatia, la motivazione nell’aiutare gli altri a pensare, la capacità di comunicare ecc…
Realtà che conosco personalmente nel mondo dell’impresa e che sento di citare è Dallara, azienda leader nella progettazione e realizzazione di vetture da competizione, con una vocazione sempre più globale (ha appena aperto uno stabilimento di fronte al mitico Speedway, circuito di Indianapolis dove corre la storica 500 miglia di Indianapolis) e di servizi per lo sviluppo di supercar (crescente è l’attività di consulenza per grandi brand mondiali come Audi, Bugatti, Lamborghini, Ferrari, KTM ecc…).
Tutti gli utili vengono reinvestiti, circa il 20% del fatturato va in ricerca e sviluppo per lo sviluppo di aree d’eccellenza come lo studio dei compositi, la galleria del vento, i potenti software di CFD (simulazione aerodinamica), progettazione ed analisi strutturali, uno dei simulatori di guida fra più avanzati al mondo, “giocattolini” che attirano giovani ingegneri anche dall’estero (l’età media in azienda è di 34 anni) e che fanno sì che ogni weekend circa 300 vetture Dallara corrano nei circuiti di tutto il mondo.

Nel campo dello Stato, esempi positivi sono i giovani talenti cresciuti nel Ministero dell’Economia, nei palazzi di via XX Settembre, poi affermatisi a livello mondiale, come Guido Carli (governatore Bankitalia e ministro del Tesoro), Faini (Banca Mondiale, FMI e Tesoro), fino ai più attuali Ciampi, Draghi, Grilli, Giavazzi ecc…

Nel campo della giustizia, seme del merito è il tribunale di Torino, dove il presidente Mario Barbuto ha ridotto drasticamente i tempi delle cause civili: il 93% delle cause ha meno di 3 anni, il 66% ha meno di un anno, ci sono state solo 36 condanne per ritardi (legge Pinto) contro le 3.000 del tribunale di Roma. Barbuto ha iniziato a misurare i tempi delle cause, ha usato criterio first in first out (cause più vecchie hanno la precedenza sulle ultime arrivate), ha evitato che gli avvocati ottenessero eccissivi rinvii per trattative in corso fra le parti, ha responsabilizzato i colleghi, ha creato incentivi di natura morale, ha puntato sulla comunicazione continua, la delega, l’appello alle emozioni ecc…


9. Quattro proposte concrete per far sorgere il merito

Gli italiani, da ricerche e sondaggi, sono i più scontenti della qualità della propria vita (47% contro 24% degli svedesi), più pessimisti per il futuro e preoccupati per crimine, corruzione dei leader ed immigrazione, ma sono anche quelli più convinti che la propria cultura sia superiore (68% contro 32% dei francesi e 21% degli svedesi).

Nella nostra cultura la colpa è sempre di qualcun altro, spesso del sistema, c’è omogeneizzazione sociale, solidarietà acritica, permissività lassista, mancanza di pari opportunità, di responsabilizzazione degli individui, dell’idea di duro lavoro e ricchezza meritata, c’è poca consapevolezza da parte di consumatori e cittadini del proprio potere.

Le denunce contro il mal di merito fioccano ogni giorno, l’argomento è sempre più dibattuto (in TV, nei giornali, nei convegni ecc..), ma per applicare nuovi principi, per cambiare valori e cultura occorrono leader “campioni del merito” che facciano propria l’ideologia della meritocrazia e la trasferiscano agli altri, dimostrando che questa via paga e riduce, invece di aumentare, l’ineguaglianza sociale.
Abravanel propone a proposito quattro proposte concrete.

1. Riforma P.A: drastico miglioramento nella qualità del suo servizio

Un esempio di riforma di P.A. è quella di Tony Blaire in Inghilterra, seguita direttamente dal consulente Michael Barber, a capo di una delivery unit (unità di consegna) che aveva l’obiettivo di consegnare risultati al governo e ai cittadini: realizzare, non parlare.
Barber scelse 50 collaboratori di talento, civil servants svegli, perché “50 giovani eccezionali fanno un lavoro di 1.000 funzionari mediocri” e aveva obiettivi specifici e concreti sulla sanità (es. diminuzione liste di attesa, mortalità per malattie cardiache, per cancro…), sugli interni (diminuzione numero complessivo crimini e numero di ogni singola tipologia, probabilità di diventare vittima di un reato…), sui trasporti (diminuzione livello congestione strade…), nella scuola ecc… Alla fine si ottennero grandi miglioramenti in tutte le aree indagate, garantendo una maggiore produttività della spesa e nuove risorse da investire.

L’Italia è come l’Inghilterra prima di Blaire, ma senza aver avuto le liberalizzazioni della Thatcher, con un mostruoso debito pubblico che ci impone di pagare quasi 100 miliardi di interessi all’anno, bassa crescita, alta evasione fiscale. Per progetti di delivery unit occorre l’impegno in prima persona del Presidente del Consiglio per 4-5 anni, mentre in Italia non si programma con questo respiro; In Inghilterra, il capo del governo può licenziare i ministri, mentre in Italia sono di nomina politica e rispondono al partito che li sponsorizza: occorre dunque che il governo abbia il mandato di realizzare il progetto da parte degli elettori o una riforma elettorale che migliori la governabilità.
Il risultato finale del programma dovrebbe essere quello di avere 1.000 talenti in posizione di comando nella PA italiana in 10 anni e per questo si propongono 3 mini-programmi
Top 10: borse di studio assegnate dal Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, a 10 giovani laureati, con almeno 2 anni di esperienza lavorativa, interessati a carriere nella PA, per specializzarsi in una prestigiosa università internazionale. Al rientro dallo studio, lavoro per due anni a servizio del Presidente del Consiglio e altri due anni in un posto di prestigio; a 34-35 anni, carriera fast track in una posizione dirigente della PA.
Top 100: programma di formazione di 4 anni, metà in una scuola d’amministrazione internazionale per costruire le soft skills su leadership, capacità lavorare in team, ascoltare e comunicare e metà on-the-job, con esperienze in diverse discipline e ministeri, al centro, in regione e comune e poi una carriera fast track come dirigente della PA in posizioni di rilievo.
Alto potenziale: quadri e dirigenti della PA ad alto potenziale inviati in un’università internazionale e poi rientro con percorsi di carriera rapidi.

2. Riforma istruzione: una nuova educazione

Nel paragrafo 7, abbiamo parlato già parlato del fallimento dell’educazione pubblica. Un giudice americano disse: “la luce del sole è il migliore dei disinfettanti”; per Abravanel un sistema educativo pubblico può operare trasformazioni epocali se il merito del sistema è reso misurabile e trasparente.
Due sono i grandi obiettivi.

A) Creare poche università eccellenti a livello nazionale che in 10 anni ci riportino nella classifica delle 50 migliori università al mondo e diventino fabbriche di leader per l’economia pubblica e privata. Pochi studenti e ricercatori, ma di grande livello, valutazione su parametri oggettivi e di mercato (numero laureati che trovano occupazione con reddito superiore ai non laureati, qualità occupazione, numero cervelli stranieri che attraggono, atmosfera corpo docente, spirito di squadra, grado soddisfazione datore di lavoro ecc..), finanziamenti pubblici e finanziamenti da parte degli studenti, borse di studio e prestiti d’onore per gli studenti non abbienti, ma meritevoli.

B) Aumento della mobilità sociale, della qualità e dell’entità del capitale umano a disposizione del mondo del lavoro.

Per l’obiettivo A), Abravanel propone l’introduzione di un test standard nazionale (TES), simile a quelli usati negli USA che selezionano gli studenti dopo le superiori (SAT, Scholastic Aptitude Test) e quelli di Singapore, Canada, Australia, Finlandia ecc… che valutano gli studenti a 7, 11, 14, 16 e 18 anni.

Da ricerche emerge che la scuola migliora se migliora la qualità degli insegnanti, che è l’unica variabile che conta, più delle ore di insegnamento, delle dimensioni delle classi, dei finanziamenti ecc… Per misurare la qualità degli insegnanti, bisogna misurare il merito degli studenti, per cui è necessario un test. Questo non può valutare la personalità, l’autodisciplina, i valori morali dei ragazzi, che si possono giudicare solo in modo qualitativo, ma il test rimane l’unico modo per avere standard misurabili da cui partire.

In Italia i pochi test non vengono presi sul serio, copiare agli esami è normale, chi non fa copiare è un secchione antipatico, cultura è erudizione classica, non saper ragionare, e questa non è misurabile con risposte multiple. Anche volendo, introdurre i test non sarebbe facile perché questi devono essere amministrati in modo da evitare truffe, rigorosamente scritti, gestiti da un’agenzia indipendente del minstero dell’istruzione che controlla la qualità del sistema come in Inghilterra.

In base ai TES, però, si potrebbero creare dei buoni per i più meritevoli che potrebbero utilizzarli per qualunque università di eccellenza al mondo, con condizione di tornare dopo gli studi a lavorare in Italia. I finanziamenti a pioggia, indipendenti dal merito, sono 350 milioni di euro: la proposta è eliminarli e usare buoni da 40.000 euro (es. costo corso laurea al MIT) per 10.000 studenti. Il rischio è che gli studenti vadano all’estero a finanziare stipendi di professori stranieri, ma alcuni giovani professori italiani potrebbero creare un’università italiana di eccellenza basata sul merito e rafforzare istituzioni accademiche di qualità.

Per obiettivo B), occorre ridurre la disuguaglianza nell’istruzione pre-universitaria partendo dai risultati dei test PISA (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse che misurano le capacità di lettura, matematica, scienze e problem solving dei ragazzini di 15 anni.
L’Italia è al di sotto della media Ocse, solo il Nord-Est è in media europea, con punte di eccellenza nei licei, mentre Sud e Isole hanno punteggi da paese in via di sviluppo (Turchia, Uruguay, Thailandia): questi risultati hanno mosso poco l’opinione pubblica italiana, al contrario di quella tedesca che ha tenuto molto in considerazione tali test e ha lavorato per migliorare la qualità dell’insegnamento. Occorre dunque ridurre il gap tra Nord e Sud ed avvicinarsi il più possibile alle prime posizioni della classifica (Taiwan, Finlandia, Hong Kong, Corea del Sud, Canada, Australia…).

Occorre inoltre rifocalizzare la missione dell’università italiana: all’estero spesso dopo i 3 anni i giovani iniziano a lavorare e solo dopo qualche anno investono i primi guadagni in ulteriore formazione mirata; in Italia il titolo triennale è una mezza laurea, i corsi sono concepiti per obbligare a continuare gli studi (più che “3+2” sono dei “5-2”). Occorre inoltre un maggior orientamento alla formazione di qualità caratteriali ed emozionali, al problem solving in team, alla capacità di comunicare, di trattare con le persone, interpretare fatti ed informazioni, scrivere un rapporto chiaro e non solo competenze tecniche e nozioni da imparare a memoria.

L’università dovrebbe avere un ruolo più selettivo, come preselezione per il primo lavoro, più che formativa perché la formazione molto spesso è fatta in azienda, con i giovani che cambiano più mestieri e poi prendono un master o un dottorato se vogliono.
Scuola ed università dovrebbero diventare accountable, responsabili sui risultati, non più semplicemente autonome. Nella scuola i funzionari dei provveditorati dovranno trasformarsi da costosi burocarati ad agenti del cambiamento nella gestione dei database di test, nel benchmarck fra le scuole, nell’organizzazione di programmi di supporto alla formazione e all’ispezione. Nell’università, è necessario un cambio di governance con un CDA esterno all’università che nomina il rettore e l’AD, che devono avere lo stesso livello di potere.

2.A. La critica ai test

L’idea di educazione e valorizzazione dei talenti che ha Abravanel mi piaceva molto, ma non mi soddisfava al 100%. C’e’ qualcosina che mancava nei suoi ragionamenti, qualcosa che ho ritrovato in “Futuro Artigiano”, libro scritto da Stefano Micelli, professore di Economia e Gestione delle Imprese a Venezia.

Secondo Micelli, l’intelligenza misurata dai test (chiamiamola intelligenza “T”) descritta da Abravanel è un’intelligenza orizzontale, capace di muoversi fra problemi diversi, astratta, in the head, presente nella testa di chi pensa perché ancorata a processi cognitivi che si sviluppano nella mente piuttosto che nel confronto diretto con il mondo circostante. E’ un’intelligenza funzionale al capitalismo sperimentato in questi anni, che apprezza la formazione veloce ed un sapere superficiale incarnati dalla figura del consulente pronto a cambiare spesso azienda: il trionfo della flessibilità rispetto alla competenza.

L’Italia però rimane il paese delle piccole-medie imprese, della grande qualità, dei processi artigiani, dei distretti industriali, del saper fare, a cui guardano anche gli americani come esperienza di sviluppo industriale e che dopo la crisi stanno apprezzando sempre più.

In queste aziende, c’è un altro tipo di intelligenza che è quella dell’artigiano (chiamiamola intelligenza “A”): essa è verticale perché sviluppa una comprensione dei problemi legata ad uno specifico dominio di applicazione, sfrutta il mondo circostante, fa riferimento alla conoscenza sedimentata nel contesto del lavoro, tesse relazioni con esso, comporta investimenti in competenze poco reversibili (“sunk costs”, costi affondati), richiede tempi molto lunghi, anni di fatiche, perseveranza e tenacia.
Non si tratta di negare l’importanza dell’impegno di chi si applica nella ricerca scientifica, nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nei nuovi servizi, ma di capire come inserire il patrimonio di conoscenze “artigiane” di cui l’Italia è depositaria all’interno di processi economici a scala globale. Si tratta di capire quanta importanza attribuire all’intelligenza “T”, ma anche come valorizzare l’intelligenza “A” che ha segnato la storia della nostra cultura, come ripristinare un ascensore sociale che tenga conto anche di questa idea di merito e conoscenza.

L’Italia ha fallito anche da questo punto di vista, con poco focus sulla formazione tecnica, sull’apprendistato, sulla territorialità, concetti che invece la Germania ha ripreso nella riforma Hartz del lavoro. I genitori spingono i figli verso l’università ed il pezzo di carta, i figli considerano il lavoro manuale qualificato un ripiego, un lavoro che rinuncia alle opportunità di confronto internazionale e mobilità, che non parla la lingua della globalizzazione, che dequalifica.

In realtà Confartigianato evidenzia che se ci fosse una scuola tecnica che funziona, difficile e presa seriamente, il lavoro non mancherebbe: mancano installatori di infissi e serramenti, panettieri, tessitori e maglieristi a mano, gelatai, pasticcieri, sarti, pavimentatori e posatori di rivestimenti ecc… Occorre dunque lavorare su scuole che formino gli artigiani del domani, capaci anche di parlare lingue straniere per lavorare all’estero proponendosi come fornitori di servizi, capaci di dominare le nuove tecnologie per gestire e comunicare la propria attività, una Ivy League di scuole tecniche con specializzazioni territoriali coerenti con le vocazioni radicate nelle singole regioni, per ridare prestigio ed internazionalità a questi mestieri.

3. Liberalizzazioni e de-regolamentazioni

Casi di liberalizzazione in Italia ce ne sono. Nel settore dell’energia elettrica si è creata concorrenza nella generazione, rompendo il monopolio di Enel: i prezzi non sono diminuiti causa aumento del prezzo del petrolio, ma si è investito significativamente rendendo più efficiente il parco centrali.

Nella telefonia mobile, sono aumentati i concorrenti, incrementati gli investimenti, si è creata occupazione.

Nella distribuzione farmaceutica, i farmaci senza prescrizione possono essere distribuiti nei supermercati, ma non quelli con la prescrizione. Si rallenta così la penetrazione dei farmaci generici (quelli il cui brevetto è scaduto), le grandi catene di distribuzione farmaceutica (come Alliance Boots e Celesio) non investono, i prezzi dei farmaci generici sono 12 volte superiori a quelli inglesi, non nascono nuovi imprenditori della distribuzione farmaceutica.

Con l’acqua, essendo questo un monopolio naturale, il problema non è privatizzare, ma regolamentare meglio. Nelle autostrade le tariffe sono sconnesse rispetto al costo effettivo del servizio, con alti profitti per gli operatori e basso servizio.

Liberalizzare e regolamentare nell’economia italiana è compito difficile, soprattutto se si parla di servizi locali pubblici e privati, dato che la politica nei territori, causa la devolution, è preda delle lobby. Manca il ruolo di “pressione esterna” svolto dalla UE come nel caso dei grandi servizi nazionali (es. energia elettrica).

La soluzione proposta è un’authority del merito per sbloccare l’economia, un organismo che ascolta i pareri di tutti, decide una policy, la difende in maniera convincente, prende la leadership della sua implementazione e ne controlla l’attuazione. Le direttive politiche verso gli enti pubblici centrali e locali dovranno essere dati dallo Stato e dovranno essere principi macro, mentre l’authority definirà strategie e policy, simile alla Commissione Europea che emanda verso gli Stati membri le direttive per l’apertura del mercato interno e ne assicura l’attuazione. Nelle strategy e policy unit, dovranno convivere competenze multidisciplinari, di analisi macroeconomica, settoriali, normative, psicologiche, di comunicazione ecc….

4. Donne leader: azione positiva per portarle nei CDA

In Italia, molti dei migliori cervelli se ne sono andati, per le donne non si può contare su un immigrazione di livello, arrivano badanti rumene ed ucraine, ma poche laureate (11% contro 35% della Francia e 38% del Regno Unito), per cui il bacino di eccellenti donne italiane con educazione superiore è un grande potenziale.

Le donne hanno voti di laurea più alti degli uomini (70% delle donne ha un voto superiore a 100 contro il 48% dei maschi), da studi e ricerche emerge che hanno le stesse aspirazioni di crescita degli uomini, ma attribuiscono maggior importanza alla qualità del proprio lavoro, sono più fedeli (rimangono in azienda mediamente per 15 anni) e sanno meglio valorizzare il capitale umano ai vari livelli: si evidenzia una correlazione positiva fra rappresentatività di donne al comando e risultati economico-finanziari (ROE più alto).

In Italia però le donne lavorano meno che nel resto del mondo, quando lo fanno sono pagate meno degli uomini (30% in meno) e considerano il lavoro come una scelta temporanea fino a quando non ci sarà un allargamento della famiglia e la nascita di figli.

All’estero è totalmente diverso, la donna sviluppa uno stile di leadership adeguato alla propria personalità e non al proprio sesso, aspira a ruoli impegnativi, studia pensando alla carriera, coltiva la propria reputazione e rete di relazioni. In Norvegia, per esempio, lo Stato ha chiesto che almeno il 40% dei CDA sia composto da donne pena lo scioglimento dell’azienda e gli asili nido sono frequentati dal 65% dei bambini.

In Italia, le donne nei CDA sono il 3,5% (3 volte in meno rispetto all’UE, 10 volte meno rispetto alla Norvegia) e molto spesso sono mogli e figlie dell’imprenditore di riferimento, solo il 7% dei bambini viene mandato all’asilo nido (contro il 25% dei francesi e degli inglesi, 30% degli americani e 60% dei danesi), perché la maggior parte delle volte vengono lasciati ai nonni, meno adatti a ridurre l’ eventuale ”handicap familiare” e a dare pari opportunità sin dai primi anni della vita.

Molte donne italiane fra gravidanza a rischio, congedo parentale, congedo obbligatorio e facoltativo possono stare a casa fino a quasi 2 anni e c’è uno scarso utilizzo del congedo parentale per i padri (tassi del 4%). Occorrono meno tutele, più servizi e più flessibilità: alcune proposte sono la detassazione della retribuzione nei mesi di congedo facoltativo quando non viene utilizzato, più asili nido, durante i primi anni di vita del bambino una riduzione del numero di giorni lavorativi settimanali, il ricorso al lavoro da casa, una maggiore spinta al part-time (utilizzato nel 11% dei casi contro il 65% dell’Olanda), così da conciliare il ruolo di mamma e di leader.

La delivery unit creata appositamente dovrebbe definire dei numeri, degli indici da discutere con il Presidente del Consiglio, per riportare in alto le donne ed averne di più in ruoli chiave, negli ospedali, nei tribunali, nei CDA, nelle università (un solo rettore donna in Italia), di modo che il paese possa crescere e le donne possano fare figli con serenità e allo stesso tempo realizzarsi professionalmente.

Conclusioni

La meritocrazia si basa su due valori fondanti: la piena responsabilizzazione individuale e le pari opportunità per tutti.
La destra liberale ha spesso posto l’accento sul primo aspetto, massimizzando il liberismo economico e minimizzando l’intervento dello Stato (vedi governo Thatcher). Le sinistre moderne hanno spinto sulla mobilità sociale e l’educazione per ristabilire equità e giustizia, un social engineering che spinga i cittadini a prendersi rischi ed un servizio pubblico di una qualità così elevata da soddisfare tutti i livelli di reddito (vedi governo Blaire).

In Italia, la nostra destra ha sempre avuto nei suoi programmi elettorali uno spiccato focus sulla riduzione delle tasse, ma i forti legami con le lobby hanno bloccato il mercato e determinato un aumento di spesa pubblica. La sinistra ha sempre spinto per un’omogeneizzazione dei trattamenti e dei risultati, rivelatasi poi fortemente deleteria per il paese, con una protezione solo degli insider (lavoratori del sindacato che spingevano per andare in pensione a 58 anni) e disinteresse per i veri deboli, giovani e donne disoccupate.

La classe politica che ci ha portato sull’orlo del baratro costa molto e non è di necessaria qualità. Il merito delle classi politiche del futuro dovrà essere quello non di portare voti promettendo cose ai vari gruppi di interesse, ma di convincere gli elettori dei benefici a lungo termine (parola chiave) del merito.

Sperando di trovarci dopo il periodo Monti fuori dall’emergenza, all’orizzonte non si vedono però facce nuove, leader capaci di portare avanti questa “rivoluzione” e mettere al centro di tutto la parola “Merito”, con la M maiuscola, per tornare a crescere.

Merito e Crescita….MeC….Eureka! Ora chiamo il mio compagno di banco Andrea e gli dico che ho trovato il nome del partito. “MeC”, un nome uguale alla catena di fast-food, facile da ricordare, che ci deve portare però a nuovi valori: non ad una politica junk, fast, low quality, ma ad una classe dirigente di qualità, competente e piena di etica, che pensa alle prossime generazione e non alle prossime elezioni, che creda in questi ideali, che voglia davvero il cambiamento e si batta fino alla fine contro tutti gli ostacoli.

Perché in fondo al cuore siamo ancora come 10 anni fa, diciasettenni un po’ ribelli che vogliono cambiare il mondo, fiduciosi nell’Italia, nel suo futuro, nelle sue potenzialità.

Forse anche un po’ ingenui, sicuramente molto sognatori.



 

1 commento:

k-pop ha detto...

"L’idea di educazione e valorizzazione dei talenti che ha Abravanel mi piaceva molto, ma non mi soddisfava al 100%."

L'imperfetto di soddisfare è "soddisfaceva".