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venerdì 27 luglio 2012

La ricetta di Stiglitz: combattere le disuguaglianze per far ripartire la crescita

L’uscita dell’ultimo lavoro di Joseph Stiglitz, “The Price of Inequality: How Today’s Divided Society Endangers Our Future” (il prezzo della disuguaglianza: come la società divisa di oggi mette in pericolo il nostro futuro), è importante per due fondamentali motivi.
Perché l’economista Nobel denuncia l’insensatezza delle politiche di austerità in un periodo di depressione come quello attuale, e perché punta il dito sugli effetti negativi delle disuguaglianze dei redditi sulla crescita del Pil, mostrando come negli Stati Uniti quest’ultimo aspetto sia divenuto tanto patologico da far diventare il mito del “sogno americano” solo un pallido ricordo.
Stiglitz torna ad intervenire sull’argomento sulle colonne del Los Angeles Times puntando direttamente a chiarire che i problemi di sviluppo che le economie avanzate stanno oggi affrontando hanno una fondamentale radice: la debolezza della domanda aggregata. Ed è evidente che la porzione di reddito che viene spesa è più elevata nelle fasce più basse di reddito mentre diminuisce al crescere del reddito. La disuguaglianza nella distribuzione dei redditi – che è aumentata ovunque, ma in alcuni paesi di più che in altri – è pertanto diventata un problema strutturale dello sviluppo delle economie avanzate. Per queste sue evidenti implicazioni il concetto, prosegue Stiglitz, dovrebbe risultare immediato anche per i sostenitori dell’”economia dell’offerta” (supply-side economics), che individuano nella bassa produttività un importante freno alla crescita. Allo stesso tempo è necessario considerare che l’aumento delle disuguaglianze tra i redditi non è solo il risultato dell’operare delle cosiddette forze del mercato, ma anche l’esito inevitabile di comportamenti imprenditoriali che hanno premiato la ricerca di una rendita piuttosto che l’investimento produttivo. Meno investimenti produttivi e maggiori disuguaglianze nei redditi hanno dunque minato profondamente le prospettive di crescita delle economie avanzate. Un combinato disposto assolutamente esplosivo: non solo risulta indebolita la domanda aggregata, ma tendono anche ad indebolirsi i presupposti per la costituzione di una base produttiva ad alto potenziale di crescita, nella quale siano incorporati nuovi saperi ed innovazione. In un contesto nel quale investire equivale ad andare alla ricerca della miglior posizione di rendita finanziaria, anche il sistema del credito risulta distorto venendo a mancare quella fondamentale attività di prestito alle imprese per la realizzazione di investimenti nel settore dei beni reali.
Ora la questione cruciale che Stiglitz intende sottolineare è la seguente: far sì che gli investimenti tornino ai settori produttivi non è una operazione trascendentale. Sarebbero infatti necessarie una migliore regolamentazione finanziaria, migliori e più incisive leggi antitrust, una legislazione sulle imprese che limiti il potere dei grandi manager di fissarsi arbitrariamente le proprie retribuzioni, e nel complesso una maggiore trasparenza in tutti questi ambiti. Inoltre poiché la maggior parte del reddito delle fasce più alte della distribuzione deriva dai guadagni di operazioni puramente finanziarie e/o speculative, una tassazione maggiormente progressiva (ed in particolare una tassazione dei capital gains) sarebbe un utile deterrente. Peraltro, l’eventuale utilizzo da parte dello Stato dei maggiori introiti fiscali potrebbe trovare impiego in investimenti pubblici ad alta redditività, producendo in questo senso un duplice effetto positivo.
In generale i paesi che presentano un alto tasso di diseguaglianza tendono a disinvestire nel benessere collettivo, spendendo troppo poco rispetto a quanto dovuto in istruzione, innovazione ed infrastrutture. Ed oggi gli investimenti pubblici sono particolarmente importanti: aumentano la domanda nel breve periodo e la produttività nel medio termine. Rivolgendo l’attenzione agli Stati Uniti, Stiglitz inoltre sottolinea come proprio una ripresa dell’investimento pubblico nell’istruzione potrebbe riportare in auge il mito del “sogno americano”.
In sintesi: è necessario revisionare profondamente le priorità dell’agenda della politica economica, passando dall’obiettivo di riduzione del bilancio pubblico a quello di favorire una migliore distribuzione dei redditi. Gli effetti espansivi che si otterrebbero andrebbero inoltre a beneficio della stessa riduzione del deficit pubblico. E’ la bassa crescita a generare deficit di bilancio pubblico, non il contrario. E conclude: “Possiamo raggiungere il livello di ricchezza diffusa che ha caratterizzato le decadi dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Quei “30 anni d’oro” in cui hanno prevalso negli USA e nel resto del mondo politiche di stampo keynesiano.

(Fonte: http://keynesblog.com/)



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