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martedì 2 ottobre 2012

Tempi moderni

di Paola Danese
@woelfenbuettel


«Crediamo che una società in cui ci si aiuta a vicenda sia migliore di una in cui ognuno va per conto proprio». Bill Clinton, knock-out speech

Secondo alcuni grazie alle moderne tecnologie siamo dentro alla terza rivoluzione industriale, quella dove le Informazioni possiamo generarle in prima persona e farle girare più rapidamente, dove tutto, anche l’energia, può essere considerato “condiviso”.
Alle volte ascoltando questi visionari mi sento nel futuro. Quel futuro che da bambina avevo visto solamente in tv e che oggi sembra per certi versi già superato.
Al contempo però il futuro di oggi è molto diverso da quello che immaginavo da piccola. La maggior parte delle informazioni che girano sulla rete o sui canali, chiamiamoli cosi “democratici”-quelli dove ognuno dice la sua aspirando ad un’eguaglianza sociale e ad un’autorevolezza di pensiero che non esistono ma che oggi, grazie a fan, followers o a qualche altro guazzabuglio tecnologico è più facile scimmiottare- ha l’amaro sapore del complotto, del buio senza speranza, dell’etica di proprietà esclusiva di pochi eletti che scrivono non per cercare di salvare il mondo marcio che sta nei loro occhi ma per far vedere che in un mondo dove i giganti non esistono, loro sono quelli che più assomiglierebbero al Nessuno della mitologia. Gli Ulisse, quelli che fanno gli scemi per non andare in guerra –ma che la guerra la fanno vincere-, i low profile insomma, oggi non vanno più di moda.

In un contesto in cui l’informazione sembra estremamente disponibile, in cui la sovraesposizione sembra un valore da perseguire e il concetto sessantottino dell’essere alternativo è stato riassunto e assorbito in una cultura mainstream alla Steve Jobs o a qualche movimento nostrano che manderebbe tutti a casa a fare la calza, l’impegno dei “vecchi” credo debba essere quello di riuscire a trasferire ai giovani (o almeno a loro) il senso critico, verso se stessi prima di tutto.

Mi sono accorta di quanto il mio mondo non sia più quello della generazione immediatamente successiva alla mia quando, durante una chiacchierata di poco tempo fa in mezzo a giovani neolaureati, ascoltavo le loro paure e la loro visione del mondo lavorativo che (non) li aspetta dietro l’angolo: alla stessa età in cui io avevo la percezione di essere arrivata finalmente all’inizio di quella scala in cui i miei genitori hanno dimostrato il loro spessore e il loro valore, assumendosi la responsabilità di creare ricchezza per la società civile e per “il mercato” e non vedevo l’ora di confrontare i miei muscoli giovani e forti con le asperità della vita vera e far vedere quanto valevo, ecco, a quella stessa età questi brillanti neolaureati hanno le paure e le disillusioni di chi ha visto già tutto, di chi si è misurato col mondo e ha fallito. Allora è questa l’altra faccia dei candidati che si presentano ai colloqui, o dei ragazzi che inseriamo in azienda che si mostrano volenterosi e sicuri di loro stessi, quando non saccenti e presuntuosi grazie agli investimenti in studi e master pagati dai loro genitori? È l’assenza di prospettiva il prezzo che devono pagare gli eredi degli yuppies degli anni ‘80?

Qualche tempo fa volevo pubblicare delle riflessioni sul grande successo che stanno riscontrando alcune trasmissioni televisive di self-help e di trasferimento di competenze di base: dal come vestirsi per ogni occasione, come educare un cane o ristrutturare casa per venderla in tempi più brevi o come riconoscere di essere affetti da una malattia con sintomi che ci vergogniamo di comunicare anche al medico curante o migliorare il rapporto di coppia ritornando a scuola di anatomia di base fino ad arrivare a come migliorare le performance del genitore quando i figli ci riducono allo stremo delle forze.

L’aspetto interessante di questo successo è che, pur se con strumenti diversi, in Italia continuiamo a perseguire l’imperativo di Cavour di fare “gli italiani”, dopo che era stata ”fatta l’Italia”. Il fil rouge che lega la quasi totalità delle trasmissioni di life style è centrata sull’approfondimento: cioè sul costringere lo spettatore (o meglio, il soggetto della trasmissione nel quale lo spettatore è portato a ritrovarsi) ad andare oltre la superficie delle cose inchiodandolo alle proprie responsabilità: siamo noi a dover acquisire più strumenti, noi a dover modificare atteggiamento sia con il cane aggressivo sia con il figlio maleducato (mi perdonino la vicinanza quelli particolarmente sensibili alle differenze), siamo noi a doverci mettere in discussione e in gioco se il rapporto di coppia non funziona, noi che dobbiamo prendere coscienza della quantità di cibo che ingeriamo se abbiamo un peso di gran lunga superiore a quello che vorremmo.. e via di seguito..

Ciò però che mi ha convinto che queste riflessioni avessero un legame stretto con il management è stata la lettura dei commenti alla trasmissione che ha recentemente debuttato su Cielotv, il canale sky del digitale terrestre: The Apprentice. Avevo avuto modo di seguirne diverse puntate durante un soggiorno negli USA e ne ero rimasta entusiasta. Avevo pensato, e lo penso ancora, che una figura dirompente e di successo come Donald Trump forse sarebbe stata troppo per il pubblico italiano: il dito puntato che invita l’aspirante apprendista a prendere la via dell’uscio con la perentorietà dell’americano you’re fired! (sei licenziato) è stato trasformata in un “sei fuori” più digeribile per il popolo avezzo ai reality show, ma sembra sia troppo dura comunque, anche se a pronunciarla è uno dei pochi manager davvero di successo che l’Italia abbia mai avuto.

Sorvolando sulla curiosa selezione che ha portato questi 15 aspiranti apprendisti a misurarsi sulle prove proposte dal boss Briatore, il candidato tipo (italiano) è rappresentato nelle sue più forti caratteristiche: autoreferenziale, saccente, infarcito di dati teorici, concentrato sull’organizzazione e sulla delega (che qui è dettagliata al meglio nella parte dello scarico di lavoro sul collega più vicino), super laureato e super masterizzato… eppure incapace di ottenere risultati. A poco giova la riflessione che più volte Trump ha palesato in alter sedi che l’Università (e lui parlava di quella americana..) forma gli studenti a diventare bravi impiegati, al massimo bravi manager, ma non gli spiega nulla di cosa significhi muoversi in un contesto competitivo, cosa sia il valore che deve creare per essere produttivo nella sua posizione lavorativa, quali siano le scelte finanziarie corrette da perseguire, avere un metro di misura valido e standardizzato per misurare il proprio valore sul mercato. Anche su quello del lavoro.

I molti che apprezzano il britannico Gordon Ramsey, altro bad guru del management della ristorazione nella televisione dei nostri giorni, non hanno riservato una parola di apprezzamento per il nostrano Briatore. Pochi notano lo scaricabarile incessante dei ragazzi che vengono chiamati alla scrivania a motivare un fallimento, quasi nessuno la totale assenza di consapevolezza che fare viene prima di organizzare, la visione che il leader non è chi ci mette la faccia in prima persona, quello che facilita il lavoro di tutti e si mette a servizio del team perché la squadra possa raggiungere l’obiettivo, ma quello che a pelle sembra più simpatico o ispira più fiducia..

Incontro ogni giorno persone per le quali il titolo della laurea è un punto di arrivo, anziché un punto di partenza; per le quali avere un impiego significa svolgere il compitino, e non creare valore; candidati che anziché chiedersi cosa possono dare loro all’azienda in cambio dello stipendio che l’azienda garantisce, interrogano il titolare sui dettagli di ferie e retribuzione degli straordinari; impiegati superpagati per competenze tecniche disponibili a tutti che a fine turno si fanno cadere la penna e dimenticano anche il nome dell’azienda per la quale lavorano… Questo è il mondo che vedo oggi e nel quale, citando Trump, “molte persone non sono ricche perché vogliono ricevere più di quanto vogliono dare”.

Con un assillo di austerity che rischia di strozzare tutti, uno alla volta, il compito dell’imprenditore è oggi più che mai proteggere i posti di lavoro dei propri dipendenti e farlo anche con scelte impopolari.

Titubare di fronte a una scelta giusta, ma impopolare, fa perdere tempo; non prendere una decisione impopolare per non rompere equilibri consolidati ma improduttivi, fa perdere competitività; non creare gerarchie e responsabilità chiare, rende tutti uguali e il barile finisce di rotolare su chi firma gli assegni e paga gli stipendi, erodendo margine che ci permette di fare investimenti; tenere tutto insieme e puntellare una struttura scricchiolante, indebolisce la squadra e ridimensiona il profitto già nel breve termine.

La paura nel business come nella vita ruba i successi che avremmo potuto avere, sgretola le potenzialità che ognuno di noi ha dentro: alle volte sono nascoste dalla saccenza, altre sono mortificate dall’aver preso per vero qualcosa che non abbiamo approfondito, sempre sono rese improduttive dalla mancanza di coraggio.

Chi è arrivato, in un contesto sano e competitivo attraverso una selezione prodotta dai risultati, a posizioni di potere e di responsabilità deve seguire il primo comandamento del management: non nuocere. In rapida successione, deve essere in grado di rispondere tempestivamente e in maniera risoluta alle criticità che ogni giorno gli vengono messe sul tavolo, deve scardinare –in qualsiasi modo si renda necessario- l’ottica dell’alibi, deve creare differenziazione dentro e fuori l’azienda: internamente costruendo gerarchie chiare e sul mercato distinguendosi sul cliente grazie a strategie definite e condivise con il front end.
E non dimenticare mai che non decidere, temporeggiare, scegliere per il compromesso e per lo status quo può essere –e lo sarà- un modo irresponsabile di nuocere a tutti.

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