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venerdì 22 ottobre 2010

Il balletto delle società offshore


Il dibattito politico economico è animato dall' uso delle società OffShore. Riportiamo un'opinione dell'autorevole Oscar Giannino che condividiamo.

OSCAR GIANNINO
per Panorama Economy

Mi assumo volentieri un compito, come spesso mi accade, in pressoché totale controtendenza. Mi riferisco alle polemiche intorno alle società offshore alle quali si vorrebbe ridurre la contesa tra Fini e Berlusconi. Da una parte chi sostiene sia uno scandalo il velo proprietario posto intorno a quel certo appartamento monegasco, dall'altra chi replica che altrettanto vale per le società schermo intestatarie dell'ennesima villa del Cavaliere ad Antigua.

Consapevole dello scandalo della maggioranza dei lettori, mi accingo all'elogio delle società offshore, dei trust anonimi comunque costituibili secondo le legislazioni di Paesi rispettabilissimi come la Svizzera, il Liechtenstein, Antigua e le Cayman, Bahamas e il Delaware, Monaco e Dubai. Continuo da decenni a pensare che le possibilità offerte da tali ordinamenti siano benefiche e anzi salvifiche. E mi tocca volentieri ripeterlo.

Se dovessimo procedere a una stima anche solo spannometrica dei beni e delle attività detenute attraverso veli societari offshore, verrebbero le traveggole. Alcuni esempi: nel 2005 l'Irs, l'Agenzia delle entrate degli Stati Uniti, stimava approssimativamente in almeno 11.500 miliardi di dollari (più dell'80% del Pil, allora) il valore offshore detenuto dalle sole persone fisiche soggette al fisco americano.

Addirittura la Santa sede, quando già gli Stati nell'esplosione del loro debito pubblico erano famelicamente protesi al massimo recupero di gettito fiscale, nel novembre 2008 presentò alla conferenza promossa a Doha dall'Assemblea generale dell'Onu su finanza e sviluppo un documento in cui si stimava, non so con quale precisione, ma ci avevano lavorato banchieri papali assai fini, che le attività offshore detenute da gruppi e persone fisiche dei Paesi avanzati rendevano non meno di 860 miliardi di dollari l'anno.

Quando la crisi mondiale ormai era bell'e che esplosa e già gli Stati iniziavano ad accumulare punti su punti di Pil di debito pubblico aggiuntivo, ecco che il professor Avinash Persaud, emerito del Gresham College di Londra e membro della task force dell'Onu sulla riforma finanziaria internazionale, il 5 marzo 2009, scriveva sul Financial Times che l'attacco ai centri e alle società offshore altro non rappresenta che una pigra e seduttiva distrazione politica rispetto all'obiettivo di affrontare seriamente il problema della regolamentazione finanziaria dei Paesi industrializzati.

Finché questa resta disomogenea e ogni Paese tenta di arbitrare con più alto fisco a proprio vantaggio, la regola della libertà personale è tentare di deludere le pretese esose degli Stati spreconi e dilapidatori.

Quanto allo studio comparato del meglio che può offrire alla libertà dei capitali la tecnica offshore, non è esattamente materia per manigoldi. Il manuale di riferimento sui paradisi bancari, dell'avvocato d'affari francese Edoard Chambost, non a caso fu tradotto nel 1980 in italiano dall'avvocato Franzo Grande Stevens, puntualmente non a caso chiamato in causa insieme a Gianluigi Gabetti nelle vicende ereditarie e fiscali collegate al patrimonio dell'Avvocato Agnelli, per il ruolo ricoperto in numerose società coperte estere a fini fiscali.
Migliaia di società italiane hanno per decenni utilizzato il velo di holding per lo più di diritto lussemburghese, per eliminare la tassazione dei dividendi e incorporare ai proprietari il più delle plusvalenze. Dalla riforma Visco a quella della participation exemption voluta da ultimo dal ministro Tremonti, alla ricerca del gettito perduto, la lotta è sempre andata persa: perché la libertà prevale, e tra le massime espressioni della libertà vi è appunto quella dell'organizzazione della proprietà, al fine di ridurne i gravami a cominciare da quelli fiscali.

Come insegna nel suo bellissimo Paradisi e paradossi fiscali il professor Giuseppe Marino, che dirige il master in diritto tributario d'impresa all'Università Bocconi, un tempo l'invidia fiscale era di sinistra e la libertà fiscale di destra, quell'invidia che secondo Bertrand Russell «è vizio in parte morale, in parte intellettuale, consistente nel non vedere mai le cose in se stesse, ma soltanto in rapporto alle altre». Ohimè nell'Italia di oggi l'invidia fiscale da tributi esosi si estende ormai da sinistra a destra. Il che rende ancora più necessaria la difesa dell'offshore, vero presidio di libertà che sconfiggerà sempre, non illudetevi, cari statalisti, la lega degli Stati ad alto prelievo e bassa crescita.

( Tratto da Panorama Economy)

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