di Luca Pautasso
Sono fermamente convinto del fatto che se oggi dobbiamo fare i conti con una generazione di trenta-quarantenni disperati che non sanno cosa fare della loro esistenza e si aspettano che ci pensi qualcun altro a risolvere il dilemma al posto loro, è anche perché da troppo tempo si è persa l'abitudine di leggere ai bambini "Le Avventure di Pinocchio".
Credo sia un po' come sostengono alcuni psichiatri dell'età infantile, secondo i quali se non si leggono le favole ai più piccoli, questi matureranno con estrema difficoltà il discernimento tra bene e male, giusto e sbagliato, buono e cattivo, e finiranno con l'essere adulti a metà. Ecco, allo stesso modo ritengo che non leggendo Pinocchio ai bambini italiani, difficilmente questi, crescendo, diventeranno degli italiani perbene, ma resteranno soltanto degli italiani a metà.
L'importanza di Pinocchio come testo di educazione civica per le nuove generazioni del Bel Paese è immensa. E parlo del capolavoro di Carlo Lorenzini, detto Collodi, e non di quell'accozzaglia di buonismo low-cost, personaggi inventati e sonore puttanate che è il cartoon di Walt Disney (un uomo di cultura come il Collodi non si sarebbe mai sognato di descrivere nel suo libro una balena mangiauomini, e difatti nella versione originale lui parla di un pescecane). Non per farne per forza una colpa a Disney, beninteso: è solo che Pinocchio è una storia tutta italiana. Qualunque traduzione, qualunque adattamento, finirebbe comunque per snaturarla, per farle perdere qualche pezzo, qualche tassello importante del suo straordinario messaggio di fondo.
Quale? Beh, è molto semplice: Pinocchio è la risposta letteraria all'esigenza espressa da Massimo D'Azeglio all'indomani dell'unità d'Italia, «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Che non significava semplicemente costruire un'identità nazionale comune da Torino a Catania, da Venezia a Reggio Calabria, passando per Parma, Firenze, Roma e Napoli. Non significava soltanto far parlare a tutti la stessa lingua, far cantare a tutti lo stesso inno nazionale, far pagare a tutti le stesse tasse. Significava soprattutto insegnare ad un popolo bambino, un popolo neonato, quello italiano, per l'appunto, che per abbandonare l'infanzia e raggiungere l'età adulta bisognava imparare a crescere assumendosi ciascuno le proprie responsabilità.
Al di là dei sotto-messaggi e delle tante storielle collaterali, infatti, dal serpente che muore di ictus per il gran ridere, al meschino Melampo, al giudice scimmione con gli occhiali senza lenti, il fils rouge della storia principale è bellissimo:
«Pinocchio, studia. Va' a scuola, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«Va bene, Pinocchio: allora impara un mestiere. Va' in bottega, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«E allora, caro Pinocchio, vattelappiànderculo».
Ed è proprio lì che va Pinocchio, appiàrselanderculo, attraverso un'escalation di proverbiali cetrioli che raggiunge il suo climax subito prima che il burattino-bambino si renda conto di ciò che deve fare per redimersi, e quindi cessa. E arriva la redenzione.
Il bello di Pinocchio è che non ci sono principesse, cavalieri, re, principi, regine, duchi, marchesi, dame o imperatori. È tutto un susseguirsi di personaggi talmente normali dal rasentare la banalità, sia nel bene che nel male. Persino la Fata dai capelli turchini non è il deus ex machina della storia, e molto più dei suoi poteri magici può il ravvedimento di Pinocchio nello scioglimento della vicenda. Non ci sono supereroi né supercattivi proprio perché la forza di Pinocchio sta nella sua normalità, nel fatto che, potenzialmente, tutti quanti potremmo essere un po' Pinocchi, e per tutti quanti c'è la stessa via d'uscita.
Pinocchio somiglia tantissimo ai piagnoni della Generazione Perduta, o di uno qualsiasi dei tanti movimenti che a scadenze regolari riempiono le piazze e le colonne dei giornali di lamentazioni, rivendicazioni, slogan e proteste senza che a nessuno venga mai in mente di fare qualcosa per cambiare davvero. Pinocchio viene al mondo convinto che tutto gli sia dovuto, e subito. Pinocchio sa bene quali sono i suoi diritti, e sa altrettanto bene come evitare di compiere il suo dovere. Pinocchio ha fame ma vuole mangiare solo la polpa delle pere che Geppetto gli offre, schifando le bucce e i torsoli. Pinocchio si sente sempre una spanna davanti agli altri, ma riesce soltanto ad inanellare una sequela di gesti stupidi e sconsiderati. Ma soprattutto, Pinocchio arriva ad uccidere il Grillo perché detesta più di ogni altra cosa che qualcuno più saggio di lui gli faccia notare che sta sbagliando tutto.
Menomale che i miei coetanei brandiscono Twitter al posto del martello.
Sono fermamente convinto del fatto che se oggi dobbiamo fare i conti con una generazione di trenta-quarantenni disperati che non sanno cosa fare della loro esistenza e si aspettano che ci pensi qualcun altro a risolvere il dilemma al posto loro, è anche perché da troppo tempo si è persa l'abitudine di leggere ai bambini "Le Avventure di Pinocchio".
Credo sia un po' come sostengono alcuni psichiatri dell'età infantile, secondo i quali se non si leggono le favole ai più piccoli, questi matureranno con estrema difficoltà il discernimento tra bene e male, giusto e sbagliato, buono e cattivo, e finiranno con l'essere adulti a metà. Ecco, allo stesso modo ritengo che non leggendo Pinocchio ai bambini italiani, difficilmente questi, crescendo, diventeranno degli italiani perbene, ma resteranno soltanto degli italiani a metà.
L'importanza di Pinocchio come testo di educazione civica per le nuove generazioni del Bel Paese è immensa. E parlo del capolavoro di Carlo Lorenzini, detto Collodi, e non di quell'accozzaglia di buonismo low-cost, personaggi inventati e sonore puttanate che è il cartoon di Walt Disney (un uomo di cultura come il Collodi non si sarebbe mai sognato di descrivere nel suo libro una balena mangiauomini, e difatti nella versione originale lui parla di un pescecane). Non per farne per forza una colpa a Disney, beninteso: è solo che Pinocchio è una storia tutta italiana. Qualunque traduzione, qualunque adattamento, finirebbe comunque per snaturarla, per farle perdere qualche pezzo, qualche tassello importante del suo straordinario messaggio di fondo.
Quale? Beh, è molto semplice: Pinocchio è la risposta letteraria all'esigenza espressa da Massimo D'Azeglio all'indomani dell'unità d'Italia, «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Che non significava semplicemente costruire un'identità nazionale comune da Torino a Catania, da Venezia a Reggio Calabria, passando per Parma, Firenze, Roma e Napoli. Non significava soltanto far parlare a tutti la stessa lingua, far cantare a tutti lo stesso inno nazionale, far pagare a tutti le stesse tasse. Significava soprattutto insegnare ad un popolo bambino, un popolo neonato, quello italiano, per l'appunto, che per abbandonare l'infanzia e raggiungere l'età adulta bisognava imparare a crescere assumendosi ciascuno le proprie responsabilità.
Al di là dei sotto-messaggi e delle tante storielle collaterali, infatti, dal serpente che muore di ictus per il gran ridere, al meschino Melampo, al giudice scimmione con gli occhiali senza lenti, il fils rouge della storia principale è bellissimo:
«Pinocchio, studia. Va' a scuola, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«Va bene, Pinocchio: allora impara un mestiere. Va' in bottega, impara tutto quello che puoi, diventa qualcuno. Fa' la tua parte».
«Non mi va».
«E allora, caro Pinocchio, vattelappiànderculo».
Ed è proprio lì che va Pinocchio, appiàrselanderculo, attraverso un'escalation di proverbiali cetrioli che raggiunge il suo climax subito prima che il burattino-bambino si renda conto di ciò che deve fare per redimersi, e quindi cessa. E arriva la redenzione.
Il bello di Pinocchio è che non ci sono principesse, cavalieri, re, principi, regine, duchi, marchesi, dame o imperatori. È tutto un susseguirsi di personaggi talmente normali dal rasentare la banalità, sia nel bene che nel male. Persino la Fata dai capelli turchini non è il deus ex machina della storia, e molto più dei suoi poteri magici può il ravvedimento di Pinocchio nello scioglimento della vicenda. Non ci sono supereroi né supercattivi proprio perché la forza di Pinocchio sta nella sua normalità, nel fatto che, potenzialmente, tutti quanti potremmo essere un po' Pinocchi, e per tutti quanti c'è la stessa via d'uscita.
Pinocchio somiglia tantissimo ai piagnoni della Generazione Perduta, o di uno qualsiasi dei tanti movimenti che a scadenze regolari riempiono le piazze e le colonne dei giornali di lamentazioni, rivendicazioni, slogan e proteste senza che a nessuno venga mai in mente di fare qualcosa per cambiare davvero. Pinocchio viene al mondo convinto che tutto gli sia dovuto, e subito. Pinocchio sa bene quali sono i suoi diritti, e sa altrettanto bene come evitare di compiere il suo dovere. Pinocchio ha fame ma vuole mangiare solo la polpa delle pere che Geppetto gli offre, schifando le bucce e i torsoli. Pinocchio si sente sempre una spanna davanti agli altri, ma riesce soltanto ad inanellare una sequela di gesti stupidi e sconsiderati. Ma soprattutto, Pinocchio arriva ad uccidere il Grillo perché detesta più di ogni altra cosa che qualcuno più saggio di lui gli faccia notare che sta sbagliando tutto.
Menomale che i miei coetanei brandiscono Twitter al posto del martello.
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