Per l’economista liberal americano «uscire da questa crisi potrebbe essere incredibilmente facile». Peccato che nessuno lo segua.
di Decca Aitkenhead
Forse avrò letto solo le cose sbagliate sulla crisi finanziaria, ma finora non sono riuscito a chiarire alcuni interrogativi. Per esempio: se il crac del 2008 è stato preceduto da un’epoca di prosperità senza precedenti, come mai la maggior parte delle persone che conosco non ha guadagnato un sacco di soldi? Si supponeva che la deregolamentazione dei servizi finanziari avesse reso tutti più ricchi, ma allora perché quasi tutti noi dobbiamo indebitarci per tirare avanti?
Ora che tutto è andato a rotoli, e ognuno è concorde nell’affermare che stiamo attraversando la crisi più nera dai tempi della Grande depressione, perché non stiamo facendo tesoro delle lezioni apprese negli anni 30? Il presidente Usa Barack Obama è l’unico leader mondiale che abbia tentato un programma di stimolo keynesiano (basato cioè sulle teorie dell’inglese John Maynard Keynes che sostengono l’efficacia dell’intervento pubblico nell’economia, ndr). Perché l’effetto di questo programma è stato minimo? Perché la maggior parte degli altri leader occidentali continua a insistere che l’unico modo per uscire dalla crisi è quello di stringere la cinghia e pagare i nostri debiti, quando è chiaro che nessuna di queste due ricette funziona?
Questi misteri cominciavano a darmi la sensazione di essere in procinto di diventare matta, ma da quando ho letto il nuovo libro di Paul Krugman temo invece che il pericolo sia quello di diventare noiosa. È il tipo di libro che vi fa desiderare di citarne dei brani a chiunque sia disposto ad ascoltarvi, in quanto Fuori da questa crisi, adesso! (edito dalla Garzanti) offre una narrazione esaustiva di come siamo finiti a fare il contrario di quanto la logica e la storia ci dicono che dovremmo fare per uscire da questa crisi.
L’autore del libro tuttavia non si aspetta che il messaggio passi molto facilmente. «Da quanto posso vedere, l’opposizione seria alla politica dominante consiste in una manciata di economisti e, a quanto pare, io sono uno di essi». Spesso Krugman incontra quelle che definisce «persone molto serie», e «parecchie delle cose che queste persone dicono suonano estremamente sagge e assennate. Ma è tutto alla rovescia, tutto sbagliato. Eppure il potere della loro ortodossia, anche quando fallisce, è piuttosto sorprendente».
Queste persone molto serie presentano l’economia come un «morality play», dove il debito è un peccato e tutti noi abbiamo peccato, dunque ora dobbiamo tutti pagare il prezzo stringendo la cinghia. Ci dicono che ci vorrà molto tempo prima che la crisi si risolva, e che dovrà essere inevitabilmente dolorosa. Secondo Krugman, tutto ciò è il contrario della verità. L’austerità è una punizione collettiva autoimposta che non solo non è necessaria ma non funzionerà. Lo sappiamo che cosa funzionerebbe, ma per complesse ragioni politiche e storiche, che il suo libro esplora, abbiamo scelto di dimenticarlo. «Uscire da questa depressione» scrive «dovrebbe e potrebbe essere addirittura incredibilmente facile. Quindi perché non lo facciamo?».
Krugman fa l’esempio di una cooperativa di baby sitting, in cui i genitori ricevono dei buoni che possono scambiare con ore di sorveglianza dei figli. Se tutti i genitori decidessero contemporaneamente di risparmiare i voucher, il sistema si incepperebbe e si bloccherebbe. «Le mie spese sono il tuo guadagno e le tue spese sono il mio guadagno. Se entrambi cercassimo nello stesso momento di tagliare le nostre spese, questo comporterebbe anche una drastica riduzione dei nostri guadagni, quindi in realtà alla fine non risparmieremmo di più. Potremmo distribuire a ciascuno più buoni, per farli sentire “più ricchi“ e incoraggiarli a spendere, operazione che per il circuito sarebbe l’equivalente del quantitative easing (l’ampliamento della moneta in circolazione, deciso dalla banca centrale, ndr)». Ma se tutti sono decisi a risparmiare, i genitori si terranno i buoni supplementari e anche in questo caso il circuito non andrà avanti. È quella che viene definita una trappola della liquidità, «ed è essenzialmente dove ci troviamo in questo momento». Lo stesso principio si applica al «paradosso del deleveraging». Il debito di per sé non è una cosa terribile, sostiene Krugman. «Il debito rappresenta il passivo di una persona, ma l’attivo di un’altra. Pertanto non è necessariamente detto che ci impoverisca. Il pericolo reale con il debito è quello che accade se molte persone decidono di estinguerlo nello stesso momento o si trovano costrette a farlo».
La cosa fondamentale, prosegue Krugman, è che «ciò che vale per un singolo individuo non vale anche per la società nel suo complesso». Fare un’analogia tra un bilancio familiare e un’economia nazionale è «allettante, perché le persone vi si rapportano con facilità», ed è abbastanza ragionevole quando non si è stretti nella morsa di una crisi macroeconomica. «Ma in una situazione come questa il comportamento razionale dei singoli individui va a sfociare in un risultato disastroso a livello collettivo. Ne deriva che ogni tentativo dei singoli di migliorare la propria posizione ha l’effetto collettivo di rendere tutti più poveri. E questa è la storia dei nostri tempi». In questi momenti qualcuno deve iniziare a spendere e, ritiene Krugman, deve essere il governo. Ma ci sentiamo ripetere all’infinito che deve estinguere i propri debiti, perché il pagamento degli interessi ha costi esorbitanti, e che i mercati obbligazionari ci distruggeranno se non daremo prova di occuparci seriamente del deficit. «Vediamo un attimo. Sappiamo che economie avanzate con governi stabili sono in grado di accumulare livelli di debito elevatissimi senza crisi. E questo, a dire il vero, l’abbiamo principalmente imparato dalla storia del Regno Unito, che ha trascorso gran parte del Ventesimo secolo, inclusi gli anni 30, con livelli di indebitamento di gran lunga superiori a quelli che ha attualmente».
Ciò che affascina è l’analisi di Krugman del perché i politici, che un tempo comprendevano questi principi, abbiano deciso collettivamente di dimenticarli. Negli anni successivi alla Grande depressione i governi imposero al sistema bancario regole per garantire che i privati non si sarebbero più indebitati al punto da causare una crisi. «Ma quando trascorre molto tempo dall’ultima importante crisi economica, la gente si fa disattenta sulla questione dei debiti, dimentica i rischi. I banchieri vanno dai politici e dicono: “Non abbiamo bisogno di queste fastidiose regolamentazioni”; e i politici replicano: “Avete ragione; da tempo non accade nulla di negativo”».
Questo processo è iniziato sul serio nel 1980 con la presidenza Reagan. Una dopo l’altra le regolamentazioni bancarie sono state eliminate, fino al punto in cui «abbiamo perso le tutele e questo ha significato l’avvento di un sistema finanziario sempre più selvaggio e fumoso, desideroso di prestare ingenti somme di denaro». I politici si sono in parte fatti convincere a deregolamentare dalla tesi che questo ci avrebbe resi tutti più ricchi. E tuttora «esiste la convinzione ampiamente diffusa che ci sia effettivamente stata una forte accelerazione nella crescita. Ma non ci vuole molto, basta sedersi un attimo a studiare le statistiche delle contabilità nazionali per capire che non è così».
Se dividiamo in due il periodo tra la Seconda guerra mondiale e il 2008, «nella prima metà si evidenzia un marcatissimo miglioramento del tenore di vita, mentre nella seconda no». È stato senza dubbio spettacolare per lo 0,01 per cento della popolazione costituita dai superricchi che ha visto il proprio reddito aumentare di sette volte. Ma tra il 1980 e il crac il reddito medio delle famiglie americane è salito solo del 20 per cento circa.
Deregulation finanziaria, trionfo degli uomini di Wall Street: la morte del keynesianismo venne «trionfalmente» annunciata, per lo più da economisti repubblicani, le cui decisioni erano state «infettate dalla partigianeria e dall’orientamento politico». Ora che si trovano di fronte al catastrofico collasso delle loro teorie, Krugman ritiene che siano il pregiudizio politico e l’orgoglio a impedire loro di ammettere che si sbagliavano. Questi economisti chiamano in causa l’effetto limitato del pacchetto di stimoli economici da quasi 800 miliardi di dollari di Barack Obama, per dimostrare di essere ancora nel giusto. Secondo Krugman, Obama ha commesso un solo errore: gli aiuti erano insufficienti. Quasi metà è finita in tagli fiscali e gran parte dei restanti 500 miliardi di dollari è stata destinata a sussidi di disoccupazione, buoni alimentari (food stamp) e così via. «Per le infrastrutture la spesa effettiva è probabilmente pari a soli 100 miliardi di dollari. Quindi, se l’idea di programma di stimolo è del tipo: “Partiamo e andiamo a costruire un sacco di ponti”, beh, non si è mai concretizzata».
In un’economia che ogni anno produce beni e servizi per un valore di 15 mila miliardi di dollari, 500 milioni «non è davvero una grossa cifra». Già nel 2009 Krugman aveva messo in guardia: «Introducendo uno stimolo inadeguato, si screditerà il concetto di sostegno all’economia senza salvarla». E questo, sospira, «è proprio ciò che è accaduto. Malauguratamente, è stata una di quelle predizioni sulle quali vorrei essermi sbagliato, ma che si è rivelata del tutto esatta».
Da quando si è verificato il crac, Krugman è divenuto l’indiscussa cassandra del mondo accademico, ma scherzando confessa: «Sono un po’ stanco di fare la cassandra. Mi piacerebbe vincere davvero per una volta, invece di ottenere la mia vendetta dall’avverarsi, come predetto, del disastro. Preferirei vedere che le mie teorie su come prevenire il disastro venissero prese in considerazione».
Sarebbe interessante sapere quanto è probabile che ciò accada. Krugman è piuttosto brusco, un bizzarro miscuglio di timidezza e grande sicurezza di sé, e con la sua corporatura un po’ tarchiata e la barba sale e pepe assomiglia a un tasso molto intelligente, che si scava un passaggio nel sottobosco dei dettagli economici, pronto ad assestare un morso repentino se qualcuno gli intralcia la strada. Le critiche che ha rivolto pubblicamente all’amministrazione Obama hanno messo in agitazione molti democratici americani, mentre i suoi rimproveri ancora più aspri nei confronti di George W. Bush gli avevano procurato delle minacce di morte da parte di conservatori arrabbiati.
Ciò che dobbiamo fare, afferma Krugman, è semplice: dare un taglio all’austerità, rilanciare l’economia con un programma di spesa ambizioso del governo e ridurre il deficit quando saremo ritornati a galla. La cosa più importante è che dobbiamo farlo subito. «Cinque anni di disoccupazione estremamente elevata causano molto più che cinque volte i danni generati da un anno di disoccupazione elevata. E all’affermazione: “Certo, è doloroso, ma il tempo guarisce queste cose...”» Krugman risponde con un sospiro scoraggiato: «Non corrisponde a verità. Il tempo potrebbe non portare a una guarigione».
(© The Guardian; traduzione Studio Brindani per Panorama)
di Decca Aitkenhead
Forse avrò letto solo le cose sbagliate sulla crisi finanziaria, ma finora non sono riuscito a chiarire alcuni interrogativi. Per esempio: se il crac del 2008 è stato preceduto da un’epoca di prosperità senza precedenti, come mai la maggior parte delle persone che conosco non ha guadagnato un sacco di soldi? Si supponeva che la deregolamentazione dei servizi finanziari avesse reso tutti più ricchi, ma allora perché quasi tutti noi dobbiamo indebitarci per tirare avanti?
Ora che tutto è andato a rotoli, e ognuno è concorde nell’affermare che stiamo attraversando la crisi più nera dai tempi della Grande depressione, perché non stiamo facendo tesoro delle lezioni apprese negli anni 30? Il presidente Usa Barack Obama è l’unico leader mondiale che abbia tentato un programma di stimolo keynesiano (basato cioè sulle teorie dell’inglese John Maynard Keynes che sostengono l’efficacia dell’intervento pubblico nell’economia, ndr). Perché l’effetto di questo programma è stato minimo? Perché la maggior parte degli altri leader occidentali continua a insistere che l’unico modo per uscire dalla crisi è quello di stringere la cinghia e pagare i nostri debiti, quando è chiaro che nessuna di queste due ricette funziona?
Questi misteri cominciavano a darmi la sensazione di essere in procinto di diventare matta, ma da quando ho letto il nuovo libro di Paul Krugman temo invece che il pericolo sia quello di diventare noiosa. È il tipo di libro che vi fa desiderare di citarne dei brani a chiunque sia disposto ad ascoltarvi, in quanto Fuori da questa crisi, adesso! (edito dalla Garzanti) offre una narrazione esaustiva di come siamo finiti a fare il contrario di quanto la logica e la storia ci dicono che dovremmo fare per uscire da questa crisi.
L’autore del libro tuttavia non si aspetta che il messaggio passi molto facilmente. «Da quanto posso vedere, l’opposizione seria alla politica dominante consiste in una manciata di economisti e, a quanto pare, io sono uno di essi». Spesso Krugman incontra quelle che definisce «persone molto serie», e «parecchie delle cose che queste persone dicono suonano estremamente sagge e assennate. Ma è tutto alla rovescia, tutto sbagliato. Eppure il potere della loro ortodossia, anche quando fallisce, è piuttosto sorprendente».
Queste persone molto serie presentano l’economia come un «morality play», dove il debito è un peccato e tutti noi abbiamo peccato, dunque ora dobbiamo tutti pagare il prezzo stringendo la cinghia. Ci dicono che ci vorrà molto tempo prima che la crisi si risolva, e che dovrà essere inevitabilmente dolorosa. Secondo Krugman, tutto ciò è il contrario della verità. L’austerità è una punizione collettiva autoimposta che non solo non è necessaria ma non funzionerà. Lo sappiamo che cosa funzionerebbe, ma per complesse ragioni politiche e storiche, che il suo libro esplora, abbiamo scelto di dimenticarlo. «Uscire da questa depressione» scrive «dovrebbe e potrebbe essere addirittura incredibilmente facile. Quindi perché non lo facciamo?».
Krugman fa l’esempio di una cooperativa di baby sitting, in cui i genitori ricevono dei buoni che possono scambiare con ore di sorveglianza dei figli. Se tutti i genitori decidessero contemporaneamente di risparmiare i voucher, il sistema si incepperebbe e si bloccherebbe. «Le mie spese sono il tuo guadagno e le tue spese sono il mio guadagno. Se entrambi cercassimo nello stesso momento di tagliare le nostre spese, questo comporterebbe anche una drastica riduzione dei nostri guadagni, quindi in realtà alla fine non risparmieremmo di più. Potremmo distribuire a ciascuno più buoni, per farli sentire “più ricchi“ e incoraggiarli a spendere, operazione che per il circuito sarebbe l’equivalente del quantitative easing (l’ampliamento della moneta in circolazione, deciso dalla banca centrale, ndr)». Ma se tutti sono decisi a risparmiare, i genitori si terranno i buoni supplementari e anche in questo caso il circuito non andrà avanti. È quella che viene definita una trappola della liquidità, «ed è essenzialmente dove ci troviamo in questo momento». Lo stesso principio si applica al «paradosso del deleveraging». Il debito di per sé non è una cosa terribile, sostiene Krugman. «Il debito rappresenta il passivo di una persona, ma l’attivo di un’altra. Pertanto non è necessariamente detto che ci impoverisca. Il pericolo reale con il debito è quello che accade se molte persone decidono di estinguerlo nello stesso momento o si trovano costrette a farlo».
La cosa fondamentale, prosegue Krugman, è che «ciò che vale per un singolo individuo non vale anche per la società nel suo complesso». Fare un’analogia tra un bilancio familiare e un’economia nazionale è «allettante, perché le persone vi si rapportano con facilità», ed è abbastanza ragionevole quando non si è stretti nella morsa di una crisi macroeconomica. «Ma in una situazione come questa il comportamento razionale dei singoli individui va a sfociare in un risultato disastroso a livello collettivo. Ne deriva che ogni tentativo dei singoli di migliorare la propria posizione ha l’effetto collettivo di rendere tutti più poveri. E questa è la storia dei nostri tempi». In questi momenti qualcuno deve iniziare a spendere e, ritiene Krugman, deve essere il governo. Ma ci sentiamo ripetere all’infinito che deve estinguere i propri debiti, perché il pagamento degli interessi ha costi esorbitanti, e che i mercati obbligazionari ci distruggeranno se non daremo prova di occuparci seriamente del deficit. «Vediamo un attimo. Sappiamo che economie avanzate con governi stabili sono in grado di accumulare livelli di debito elevatissimi senza crisi. E questo, a dire il vero, l’abbiamo principalmente imparato dalla storia del Regno Unito, che ha trascorso gran parte del Ventesimo secolo, inclusi gli anni 30, con livelli di indebitamento di gran lunga superiori a quelli che ha attualmente».
Ciò che affascina è l’analisi di Krugman del perché i politici, che un tempo comprendevano questi principi, abbiano deciso collettivamente di dimenticarli. Negli anni successivi alla Grande depressione i governi imposero al sistema bancario regole per garantire che i privati non si sarebbero più indebitati al punto da causare una crisi. «Ma quando trascorre molto tempo dall’ultima importante crisi economica, la gente si fa disattenta sulla questione dei debiti, dimentica i rischi. I banchieri vanno dai politici e dicono: “Non abbiamo bisogno di queste fastidiose regolamentazioni”; e i politici replicano: “Avete ragione; da tempo non accade nulla di negativo”».
Questo processo è iniziato sul serio nel 1980 con la presidenza Reagan. Una dopo l’altra le regolamentazioni bancarie sono state eliminate, fino al punto in cui «abbiamo perso le tutele e questo ha significato l’avvento di un sistema finanziario sempre più selvaggio e fumoso, desideroso di prestare ingenti somme di denaro». I politici si sono in parte fatti convincere a deregolamentare dalla tesi che questo ci avrebbe resi tutti più ricchi. E tuttora «esiste la convinzione ampiamente diffusa che ci sia effettivamente stata una forte accelerazione nella crescita. Ma non ci vuole molto, basta sedersi un attimo a studiare le statistiche delle contabilità nazionali per capire che non è così».
Se dividiamo in due il periodo tra la Seconda guerra mondiale e il 2008, «nella prima metà si evidenzia un marcatissimo miglioramento del tenore di vita, mentre nella seconda no». È stato senza dubbio spettacolare per lo 0,01 per cento della popolazione costituita dai superricchi che ha visto il proprio reddito aumentare di sette volte. Ma tra il 1980 e il crac il reddito medio delle famiglie americane è salito solo del 20 per cento circa.
Deregulation finanziaria, trionfo degli uomini di Wall Street: la morte del keynesianismo venne «trionfalmente» annunciata, per lo più da economisti repubblicani, le cui decisioni erano state «infettate dalla partigianeria e dall’orientamento politico». Ora che si trovano di fronte al catastrofico collasso delle loro teorie, Krugman ritiene che siano il pregiudizio politico e l’orgoglio a impedire loro di ammettere che si sbagliavano. Questi economisti chiamano in causa l’effetto limitato del pacchetto di stimoli economici da quasi 800 miliardi di dollari di Barack Obama, per dimostrare di essere ancora nel giusto. Secondo Krugman, Obama ha commesso un solo errore: gli aiuti erano insufficienti. Quasi metà è finita in tagli fiscali e gran parte dei restanti 500 miliardi di dollari è stata destinata a sussidi di disoccupazione, buoni alimentari (food stamp) e così via. «Per le infrastrutture la spesa effettiva è probabilmente pari a soli 100 miliardi di dollari. Quindi, se l’idea di programma di stimolo è del tipo: “Partiamo e andiamo a costruire un sacco di ponti”, beh, non si è mai concretizzata».
In un’economia che ogni anno produce beni e servizi per un valore di 15 mila miliardi di dollari, 500 milioni «non è davvero una grossa cifra». Già nel 2009 Krugman aveva messo in guardia: «Introducendo uno stimolo inadeguato, si screditerà il concetto di sostegno all’economia senza salvarla». E questo, sospira, «è proprio ciò che è accaduto. Malauguratamente, è stata una di quelle predizioni sulle quali vorrei essermi sbagliato, ma che si è rivelata del tutto esatta».
Da quando si è verificato il crac, Krugman è divenuto l’indiscussa cassandra del mondo accademico, ma scherzando confessa: «Sono un po’ stanco di fare la cassandra. Mi piacerebbe vincere davvero per una volta, invece di ottenere la mia vendetta dall’avverarsi, come predetto, del disastro. Preferirei vedere che le mie teorie su come prevenire il disastro venissero prese in considerazione».
Sarebbe interessante sapere quanto è probabile che ciò accada. Krugman è piuttosto brusco, un bizzarro miscuglio di timidezza e grande sicurezza di sé, e con la sua corporatura un po’ tarchiata e la barba sale e pepe assomiglia a un tasso molto intelligente, che si scava un passaggio nel sottobosco dei dettagli economici, pronto ad assestare un morso repentino se qualcuno gli intralcia la strada. Le critiche che ha rivolto pubblicamente all’amministrazione Obama hanno messo in agitazione molti democratici americani, mentre i suoi rimproveri ancora più aspri nei confronti di George W. Bush gli avevano procurato delle minacce di morte da parte di conservatori arrabbiati.
Ciò che dobbiamo fare, afferma Krugman, è semplice: dare un taglio all’austerità, rilanciare l’economia con un programma di spesa ambizioso del governo e ridurre il deficit quando saremo ritornati a galla. La cosa più importante è che dobbiamo farlo subito. «Cinque anni di disoccupazione estremamente elevata causano molto più che cinque volte i danni generati da un anno di disoccupazione elevata. E all’affermazione: “Certo, è doloroso, ma il tempo guarisce queste cose...”» Krugman risponde con un sospiro scoraggiato: «Non corrisponde a verità. Il tempo potrebbe non portare a una guarigione».
(© The Guardian; traduzione Studio Brindani per Panorama)
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