I problemi che oggi attanagliano le economie moderne ruotano intorno ad un denominatore comune: LA CRESCITA ECONOMICA.
Ma cosa si intende per crescita economica?
Secondo la definizione elaborata dal prof. Solow, si ha crescita economica quando l’economia si sviluppa ad un tasso più elevato della produttività dei suoi inputs (capitale e lavoro). L’incremento di reddito che non risulta spiegato dall’aumento di capitale e lavoro è frutto evidentemente del progresso tecnologico.
L’indicatore per eccellenza utilizzato per misurare il livello di ricchezza di un’economia è il PIL.
Ma quali sono le componenti del PIL?
Il consumo, l’investimento, la spesa pubblica, le esportazioni nette.
Se qualcosa si inceppa nei meccanismi di creazione e trasmissione della ricchezza ci troviamo di fronte a problematiche che assumono connotazioni di crisi, recessione e depressione a seconda del loro protrarsi nel tempo.
Gli obiettivi che i governi si auspicano, e si sono auspicati per il passato, si sposano bene con l’individuazione delle quelle condizioni atte a realizzare una crescita stabile e duratura. Creare ricchezza, preservarla e incrementarla nel tempo è la condicio sine qua non per scongiurare tensioni sociali e fratture traumatiche.
I teorici dell’economia, dagli albori sino ai giorni nostri, consapevoli di questa visione del mondo, sono stati da sempre ossessionati da un concetto: L’ EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE.
Si tratterebbe in sostanza di un modello economico dove tutti gli individui sono soddisfatti, felici e contenti.
Un modello del genere è tanto idilliaco quanto utopistico. Nella realtà questo non esiste, e ritengo forse non sia mai esistito nemmeno a livello teorico (Leon Walras).
I gusti, le preferenze, le debolezze, i sentimenti, gli stati d’animo delle persone non si prestano ad essere schematizzati mediante funzioni matematiche e ogni tentativo che fosse volto in questa direzione sarebbe destinato a fallire inevitabilmente.
Ancora una volta ho assistito ad un seminario i cui i proponimenti iniziali sono stati disattesi nella sostanza. L’ennesima lezione universitaria sterile sotto gli aspetti pratici.
Gli strumenti di politica economica, siano essi di natura fiscale che monetaria, sono un catalizzatore di breve periodo, inefficaci se si considerano dinamiche di lungo periodo.
Lo stesso Keynes ne era perfettamente a conoscenza. Infatti, le sue analisi sono esclusivamente di breve periodo.
Ritenere che questi strumenti siano l’unica risposta possibile ai mali si rischierebbe di ricadere negli errori del passato. Essi curano, quando risultano efficaci, gli effetti e non le cause.
Fare una politica di stampo Keynesiano, come mi pare sia emerso dal convegno, attraverso interventi di natura fiscale rischierebbe di appesantire l’apparato dei fannulloni tanto caro al ministro Brunetta.
La situazione economica attuale non trova spiegazione nel modello di Solow, non perché il suo modello sia sbagliato ma perché è anacronistico rispetto alla attuale situazione di crisi. Se ragionassimo in base a quelle che sono le ipotesi formulate nel modello ci troveremmo di fronte a questa contraddizione: produttività potenzialmente alta dei fattori, crescita negativa e disoccupazione dilagante.
Di fronte ad uno scenario globalizzato, mi guarderei bene dall’utilizzo di politiche volte ad incrementare la spesa pubblica.
Fare le buche per poi ricoprirle ben si adattava ad un sistema economico prevalentemente a carattere domestico, dove i fenomeni inflazionistici dovuti all’escalation dei costi delle materie prime (es. petrolio OPEC) non avevano certamente la dimensione e la portata che hanno oggi.
Ma anche concetti come la dicotomia del sistema economico e la neutralità della moneta, argomenti tanto cari ai monetaristi, in realtà crollano come un castello di sabbia. Infatti, la crisi che oggi stiamo attraversando affonda le sue radici in problematiche di carattere monetario-finanziario.
A questo proposito mi viene in mente un paragone che Milton Friedman, soleva fare a proposito della circolazione della moneta.
Immaginiamo una comunità montana, isolata dal mondo, che vive di quello che produce e che utilizza una certa quantità di moneta (per esempio 100) per fare circolare i beni e i servizi prodotti. Se la quantità di moneta in circolazione ad esempio raddoppia, perché si distribuiscono con un piper altri 100 biglietti di banca, la ricchezza totale è cambiata?
Quello che è cambiato evidentemente è il paramento di misurazione dei beni e servizi ma non certamente la ricchezza prodotta dalla collettività stessa!
La visione della moneta come un “buono della Coop” che permette lo scambio dei beni e dei servizi è valida, e certamente accettabile sotto l’aspetto transattivo ma se della moneta se ne fa un altro uso, magari per fini speculativi e fraudolenti, il risultato che se ne ottiene è sotto gli occhi di tutti.
La crisi finanziaria scoppiata l’anno scorso ha trascinato nel baratro la parte reale del sistema.
Ritornare alla situazione di normalità e di crescita, attraverso l’introduzione di meccanismi automatici di stabilizzazione, come è stato più volte ribadito nel seminario, non è una risposta efficace al problema. Lo sarebbe, ma non ne sono completamente convinto, se si creassero regole condivise e universalmente accettate.
Ritengo invece corretto individuare soluzioni che siano più attuali rispetto ad un’economia sempre più globalizzata.
Se è vero che il modello propostoci negli ultimi venti anni a questa parte è quello basato sulla concorrenza, la differenza, in termini di crescita, la fa il mercato. Non è certamente la spesa pubblica o l’imposta da inflazione (espansione della base monetaria maggiore del tasso di crescita della ricchezza reale) a dare una risposta duratura e tangibile ai problemi. Sono palliativi questi di breve termine che vanno presi con le pinze. Se così non fosse si correrebbe il rischio di trovarsi di fronte al paradosso che il rimedio adottato si riveli peggiore del male.
Un mercato concorrenziale riesce più di qualsiasi altra forma di mercato a massimizzare gli interessi degli agenti economici (offerenti e compratori). Questo è vero se le regole non vengono disattese e soprattutto se lo stato si impegna ad eliminare situazioni viziate definite come “rendite di posizione”.
Dalla crisi si uscirà e poco importa quali strumenti saranno adottati per ritornare alla situazione di normalità. L’importate è scegliere la via meno traumatica.
La ricchezza la si crea garantendo il rispetto delle regole del gioco e limitando l’intervento dello stato nell’economia. A mio avviso, lo Stato dovrebbe in ultima analisi rivestire il ruolo di arbitro sanzionando quei comportamenti potenzialmente dannosi. Solo in questo modo un’impresa riesce a conseguire un vantaggio competitivo e solo se riesce a creare più valore rispetto ai suoi concorrenti avrà la possibilità di incrementare profitti e ricchezza.
Gli sforzi devono essere compiuti in questa direzione. Se non si entra in questa ottica sarà difficile competere con le economie emergenti!
Ma cosa si intende per crescita economica?
Secondo la definizione elaborata dal prof. Solow, si ha crescita economica quando l’economia si sviluppa ad un tasso più elevato della produttività dei suoi inputs (capitale e lavoro). L’incremento di reddito che non risulta spiegato dall’aumento di capitale e lavoro è frutto evidentemente del progresso tecnologico.
L’indicatore per eccellenza utilizzato per misurare il livello di ricchezza di un’economia è il PIL.
Ma quali sono le componenti del PIL?
Il consumo, l’investimento, la spesa pubblica, le esportazioni nette.
Se qualcosa si inceppa nei meccanismi di creazione e trasmissione della ricchezza ci troviamo di fronte a problematiche che assumono connotazioni di crisi, recessione e depressione a seconda del loro protrarsi nel tempo.
Gli obiettivi che i governi si auspicano, e si sono auspicati per il passato, si sposano bene con l’individuazione delle quelle condizioni atte a realizzare una crescita stabile e duratura. Creare ricchezza, preservarla e incrementarla nel tempo è la condicio sine qua non per scongiurare tensioni sociali e fratture traumatiche.
I teorici dell’economia, dagli albori sino ai giorni nostri, consapevoli di questa visione del mondo, sono stati da sempre ossessionati da un concetto: L’ EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE.
Si tratterebbe in sostanza di un modello economico dove tutti gli individui sono soddisfatti, felici e contenti.
Un modello del genere è tanto idilliaco quanto utopistico. Nella realtà questo non esiste, e ritengo forse non sia mai esistito nemmeno a livello teorico (Leon Walras).
I gusti, le preferenze, le debolezze, i sentimenti, gli stati d’animo delle persone non si prestano ad essere schematizzati mediante funzioni matematiche e ogni tentativo che fosse volto in questa direzione sarebbe destinato a fallire inevitabilmente.
Ancora una volta ho assistito ad un seminario i cui i proponimenti iniziali sono stati disattesi nella sostanza. L’ennesima lezione universitaria sterile sotto gli aspetti pratici.
Gli strumenti di politica economica, siano essi di natura fiscale che monetaria, sono un catalizzatore di breve periodo, inefficaci se si considerano dinamiche di lungo periodo.
Lo stesso Keynes ne era perfettamente a conoscenza. Infatti, le sue analisi sono esclusivamente di breve periodo.
Ritenere che questi strumenti siano l’unica risposta possibile ai mali si rischierebbe di ricadere negli errori del passato. Essi curano, quando risultano efficaci, gli effetti e non le cause.
Fare una politica di stampo Keynesiano, come mi pare sia emerso dal convegno, attraverso interventi di natura fiscale rischierebbe di appesantire l’apparato dei fannulloni tanto caro al ministro Brunetta.
La situazione economica attuale non trova spiegazione nel modello di Solow, non perché il suo modello sia sbagliato ma perché è anacronistico rispetto alla attuale situazione di crisi. Se ragionassimo in base a quelle che sono le ipotesi formulate nel modello ci troveremmo di fronte a questa contraddizione: produttività potenzialmente alta dei fattori, crescita negativa e disoccupazione dilagante.
Di fronte ad uno scenario globalizzato, mi guarderei bene dall’utilizzo di politiche volte ad incrementare la spesa pubblica.
Fare le buche per poi ricoprirle ben si adattava ad un sistema economico prevalentemente a carattere domestico, dove i fenomeni inflazionistici dovuti all’escalation dei costi delle materie prime (es. petrolio OPEC) non avevano certamente la dimensione e la portata che hanno oggi.
Ma anche concetti come la dicotomia del sistema economico e la neutralità della moneta, argomenti tanto cari ai monetaristi, in realtà crollano come un castello di sabbia. Infatti, la crisi che oggi stiamo attraversando affonda le sue radici in problematiche di carattere monetario-finanziario.
A questo proposito mi viene in mente un paragone che Milton Friedman, soleva fare a proposito della circolazione della moneta.
Immaginiamo una comunità montana, isolata dal mondo, che vive di quello che produce e che utilizza una certa quantità di moneta (per esempio 100) per fare circolare i beni e i servizi prodotti. Se la quantità di moneta in circolazione ad esempio raddoppia, perché si distribuiscono con un piper altri 100 biglietti di banca, la ricchezza totale è cambiata?
Quello che è cambiato evidentemente è il paramento di misurazione dei beni e servizi ma non certamente la ricchezza prodotta dalla collettività stessa!
La visione della moneta come un “buono della Coop” che permette lo scambio dei beni e dei servizi è valida, e certamente accettabile sotto l’aspetto transattivo ma se della moneta se ne fa un altro uso, magari per fini speculativi e fraudolenti, il risultato che se ne ottiene è sotto gli occhi di tutti.
La crisi finanziaria scoppiata l’anno scorso ha trascinato nel baratro la parte reale del sistema.
Ritornare alla situazione di normalità e di crescita, attraverso l’introduzione di meccanismi automatici di stabilizzazione, come è stato più volte ribadito nel seminario, non è una risposta efficace al problema. Lo sarebbe, ma non ne sono completamente convinto, se si creassero regole condivise e universalmente accettate.
Ritengo invece corretto individuare soluzioni che siano più attuali rispetto ad un’economia sempre più globalizzata.
Se è vero che il modello propostoci negli ultimi venti anni a questa parte è quello basato sulla concorrenza, la differenza, in termini di crescita, la fa il mercato. Non è certamente la spesa pubblica o l’imposta da inflazione (espansione della base monetaria maggiore del tasso di crescita della ricchezza reale) a dare una risposta duratura e tangibile ai problemi. Sono palliativi questi di breve termine che vanno presi con le pinze. Se così non fosse si correrebbe il rischio di trovarsi di fronte al paradosso che il rimedio adottato si riveli peggiore del male.
Un mercato concorrenziale riesce più di qualsiasi altra forma di mercato a massimizzare gli interessi degli agenti economici (offerenti e compratori). Questo è vero se le regole non vengono disattese e soprattutto se lo stato si impegna ad eliminare situazioni viziate definite come “rendite di posizione”.
Dalla crisi si uscirà e poco importa quali strumenti saranno adottati per ritornare alla situazione di normalità. L’importate è scegliere la via meno traumatica.
La ricchezza la si crea garantendo il rispetto delle regole del gioco e limitando l’intervento dello stato nell’economia. A mio avviso, lo Stato dovrebbe in ultima analisi rivestire il ruolo di arbitro sanzionando quei comportamenti potenzialmente dannosi. Solo in questo modo un’impresa riesce a conseguire un vantaggio competitivo e solo se riesce a creare più valore rispetto ai suoi concorrenti avrà la possibilità di incrementare profitti e ricchezza.
Gli sforzi devono essere compiuti in questa direzione. Se non si entra in questa ottica sarà difficile competere con le economie emergenti!
3 commenti:
Solow come tutti gli accademici ha spesso un piede in un' altra realtà...Non è un caso che economisti come lui non abbiano previsto il disastro finanziario di questi ultimi 2 anni e ovviamente comunque discettano di improbabili soluzioni...La crisi è talmente atipica e particolare che è davvero arduo pensare a soluzioni troppo spesso banali. Pensare poi che lo Stato debba intervenire e regolare l' universo è davvero troppo!! Purtroppo è ciò che sta avvenendo, in USA in primis...Speriamo che non ci stiano per sfornare un' altra polpetta avvelenata peggiore dell' attuale...
.."la parte reale del sistema"... siamo davvero sicuri che ciò che il contribuente medio, il lavoratore senza colletto o il professionista che fa a gomitate per stare sul mercato intendono per sistema reale sia un parametro condiviso da tutti?! forse anche questo è parte del problema. Ogni amministrazione da peso e potere in direzione del potere, e il piccolo risparmiatore è sempre più lontano dalla stanza dei bottoni.
L'intervento dello stato come arbitro è ciò che auspico anche io...ma vedendo ciò che sta succedendo ovvero nulla mi fa capire che forse la crisi non è abbastanza forte per cambiare la rotta.
CARESTIA biblica è la parola chiave
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