di Paola Danese
Non serve essere appassionati di calcio per rimanere colpiti dalla personalità e dalla presenza dell’allenatore dell’Internazionale Football Club.
Al suo debutto italiano si è presentato ai giornalisti descrivendosi con la sua migliore non qualità: “non sono un pirla!”.. tanto l’altra, la qualità vera, l’aveva già annunciata al suo debutto nel Chelsea ed oggi è la definizione che nelle vittorie e nelle sconfitte lo accompagna sempre: all’Old Trafford Stadium dopo la sconfitta in Champions del mese scorso, i fan dei Red Devils gli hanno urlato in coro “you are not the Special One anymore”, non sei più lo Special One.
Penso invece che lo sia ancora, che lo sarà per gli annali del calcio e che qualche riga può farla scrivere anche sui testi di management a vantaggio di chi ogni giorno lavora con la propria squadra per raggiungere un obiettivo sfidante e atteso.
Per i giornalisti e per gli appassionati di calcio è un personaggio amato o odiato, discusso o ammirato, ma ogni settimana al centro di dibattiti: per la sua durezza, per la sua abilità dialettica da spin doctor che ribalta la prospettiva, che carpisce l’attenzione dell’ascoltatore e lo conduce altrove e sposta lo sguardo distraendo, spaesando, trasformando.. e alla fine in alcuni sorge il dubbio legittimo che, forse, ha ragione lui.
Un gestore di uomini che ha appreso e metabolizzato, ignorando, la lezione di Brecht che si metteva dalla parte del torto perché dall’altra non c’era più posto: s’è preso sul serio per farsi prendere sul serio dagli altri, asserisce di vincere lo scudetto e si assume la responsabilità di lasciarsi smentire coi fatti, il giorno in cui dovesse averlo perso.
In Italia, certamente un leader Speciale, di frattura, che sceglie il linguaggio diretto, non diplomatico, trasparente, quello che mira dritto al centro del bersaglio e arriva lì dove solo pochi hanno avuto la presunzione o il coraggio di colpire.
Ma cosa possiamo imparare da Josè Mourinho?
Lezione 1 – Creare un metodo
Mourinho non è stato un grande giocatore, anzi, era un difensore centrale con scarse prospettive; per questo ha deciso di allenare, iniziando a prepararsi a questa professione prima di altri colleghi, mentre i coetanei si impegnavano per diventare eccellenti giocatori. Questo è il motivo per cui è uno dei più titolati giovani allenatori. Mentre si impegnava in questa direzione si è messo sulle tracce e nel team di lavoro di Bobby Robson (monumento internazionale del calcio inglese) e Louis Van Gaal (a quarant’anni ha già vinto tutto con il suo Ajax), appuntandosi ogni dettaglio e riuscendo col tempo e la pratica a trovare una sintesi e un proprio modus. La prima grande lezione? Imparare dai migliori e iniziare il prima possibile. Assimilare le tecniche, le metodologie, digerirle e crearne una propria. Applicarla con costanza e puntigliosità, correggendola dove serve, e verificare ogni meccanismo, finché non funziona.
Mourinho tiene con sé dai tempi di Robson un taccuino sul quale annota tutto quello che impara, scopre, inventa, crea.
Nella sua biografia Mourinho dice: “non puoi fare a meno di imparare, quando alleni giocatori di quel calibro impari anche sulle relazioni umane. Calciatori di quel livello non accettano ciò che gli si dice solo per l’autorità della persona che parla. Dobbiamo dimostrare di avere ragione.” Questo metodo lo chiama “scoperta guidata”.
Lezione 2 – Voler bene ai propri giocatori
Se non bastavano le tre ore del discorso d’addio tenuto a Londra quando lasciò il Chelsea e le frasi dette in portoghese ai brasiliani della sua squadra, o l’aver nominato uno a uno i familiari dei suoi giocatori in conferenza stampa, le parole recentissime di Mourinho sull’uomo Adriano hanno levato la maschera del duro: “sono triste per Adriano, ma se si perde il giocatore e l’uomo è felice, è perfetto.” In campo il giocatore che segna è con Mou che festeggia, è Mou che va ad abbracciare, è Mou che parla con ognuno di loro ad Appiano Gentile, individualmente. È geloso della propria squadra e fa loro da scudo alla stampa monopolizzando la luce dei riflettori come tattica diversiva: “i miei giocatori sono sempre i migliori al mondo, anche se non lo sono”.
Lezione 3 – Sviluppare la propria squadra
Per fare la differenza nella vita hai bisogno di allevare dei leader: non si può essere un gigante in mezzo a mediocri. Quando arrivò al Chelsea non c’erano star, ma solo buon materiale sul quale lavorare, molti talenti da rendere fruttiferi. Nel Chelsea è riuscito a trasformare giocatori di buon livello in campioni di fama mondiale.
La leadership riguarda la capacità di creare qualcosa dal niente, di tirare fuori il meglio da ognuna delle persone che si gestiscono e farle ottenere i migliori risultati. È la capacità di creare un Qualcuno da un perfetto signor Nessuno, attraverso un metodo di lavoro autorevole, disciplina rispetto a quel metodo, duro lavoro e meritocrazia che faccia crescere ogni singola individualità nel rispetto della competitività e dello spirito di squadra: “sono assolutamente contrario al vecchio adagio che dice: tutti dovrebbero essere trattati alla stessa maniera. Non è così. Siamo tutti diversi e tutti meritiamo un trattamento specifico.”
Lezione 4 – Mentalità vincente
“A certi livelli tutte le squadre si equivalgono e a fare la differenza molto spesso sono elementi psicologici e tattici più che quelli tecnici”, dice Mourinho. Allo stesso modo nelle nostre aziende una volta che è stata creata la squadra, che è stato inserito un metodo di lavoro e che tutti remano nella stessa direzione verso obiettivi importanti, perché la tensione verso quelle mete rimanga alta ed efficace serve un manager che sappia tenere viva la sfida, mantenere alto il morale e attrezzare il terreno delle sconfitte per recuperi rapidi. Nella fucina dei talenti bisogna saper forgiare uomini resilienti che abbiano elasticità e buona capacità di recupero sapendo distrarre da loro ogni pressione esterna per lasciarli concentrati al massimo sui loro obiettivi.
Se è vero che non esistono “superuomini, ma solo uomini che vincono più spesso di altri” fa riflettere anche il fatto che il “vincente non è chi vince, ma chi ha ancora voglia di vincere. Se ottieni qualcosa e continui a cercarla hai una mentalità vincente”.
Come i tifosi capita che anche i manager si lascino trascinare dall’estetica del gioco, del metodo e della disciplina applicata per il senso dell’ordine e del buon funzionamento. Ma ogni manager e ogni nostro collaboratore hanno come unico obiettivo quello di dare il proprio apporto perché la squadra nella quale gioca segni almeno un goal in più dell’avversaria. Quando si lavora per vincere non è importante l’estetica dell’azione ma il risultato ed il lavoro che si celano dietro al goal, per poter continuare il giorno dopo verso altri obiettivi, altre vittorie con strumenti migliorati di giorno in giorno.
Non serve essere appassionati di calcio per rimanere colpiti dalla personalità e dalla presenza dell’allenatore dell’Internazionale Football Club.
Al suo debutto italiano si è presentato ai giornalisti descrivendosi con la sua migliore non qualità: “non sono un pirla!”.. tanto l’altra, la qualità vera, l’aveva già annunciata al suo debutto nel Chelsea ed oggi è la definizione che nelle vittorie e nelle sconfitte lo accompagna sempre: all’Old Trafford Stadium dopo la sconfitta in Champions del mese scorso, i fan dei Red Devils gli hanno urlato in coro “you are not the Special One anymore”, non sei più lo Special One.
Penso invece che lo sia ancora, che lo sarà per gli annali del calcio e che qualche riga può farla scrivere anche sui testi di management a vantaggio di chi ogni giorno lavora con la propria squadra per raggiungere un obiettivo sfidante e atteso.
Per i giornalisti e per gli appassionati di calcio è un personaggio amato o odiato, discusso o ammirato, ma ogni settimana al centro di dibattiti: per la sua durezza, per la sua abilità dialettica da spin doctor che ribalta la prospettiva, che carpisce l’attenzione dell’ascoltatore e lo conduce altrove e sposta lo sguardo distraendo, spaesando, trasformando.. e alla fine in alcuni sorge il dubbio legittimo che, forse, ha ragione lui.
Un gestore di uomini che ha appreso e metabolizzato, ignorando, la lezione di Brecht che si metteva dalla parte del torto perché dall’altra non c’era più posto: s’è preso sul serio per farsi prendere sul serio dagli altri, asserisce di vincere lo scudetto e si assume la responsabilità di lasciarsi smentire coi fatti, il giorno in cui dovesse averlo perso.
In Italia, certamente un leader Speciale, di frattura, che sceglie il linguaggio diretto, non diplomatico, trasparente, quello che mira dritto al centro del bersaglio e arriva lì dove solo pochi hanno avuto la presunzione o il coraggio di colpire.
Ma cosa possiamo imparare da Josè Mourinho?
Lezione 1 – Creare un metodo
Mourinho non è stato un grande giocatore, anzi, era un difensore centrale con scarse prospettive; per questo ha deciso di allenare, iniziando a prepararsi a questa professione prima di altri colleghi, mentre i coetanei si impegnavano per diventare eccellenti giocatori. Questo è il motivo per cui è uno dei più titolati giovani allenatori. Mentre si impegnava in questa direzione si è messo sulle tracce e nel team di lavoro di Bobby Robson (monumento internazionale del calcio inglese) e Louis Van Gaal (a quarant’anni ha già vinto tutto con il suo Ajax), appuntandosi ogni dettaglio e riuscendo col tempo e la pratica a trovare una sintesi e un proprio modus. La prima grande lezione? Imparare dai migliori e iniziare il prima possibile. Assimilare le tecniche, le metodologie, digerirle e crearne una propria. Applicarla con costanza e puntigliosità, correggendola dove serve, e verificare ogni meccanismo, finché non funziona.
Mourinho tiene con sé dai tempi di Robson un taccuino sul quale annota tutto quello che impara, scopre, inventa, crea.
Nella sua biografia Mourinho dice: “non puoi fare a meno di imparare, quando alleni giocatori di quel calibro impari anche sulle relazioni umane. Calciatori di quel livello non accettano ciò che gli si dice solo per l’autorità della persona che parla. Dobbiamo dimostrare di avere ragione.” Questo metodo lo chiama “scoperta guidata”.
Lezione 2 – Voler bene ai propri giocatori
Se non bastavano le tre ore del discorso d’addio tenuto a Londra quando lasciò il Chelsea e le frasi dette in portoghese ai brasiliani della sua squadra, o l’aver nominato uno a uno i familiari dei suoi giocatori in conferenza stampa, le parole recentissime di Mourinho sull’uomo Adriano hanno levato la maschera del duro: “sono triste per Adriano, ma se si perde il giocatore e l’uomo è felice, è perfetto.” In campo il giocatore che segna è con Mou che festeggia, è Mou che va ad abbracciare, è Mou che parla con ognuno di loro ad Appiano Gentile, individualmente. È geloso della propria squadra e fa loro da scudo alla stampa monopolizzando la luce dei riflettori come tattica diversiva: “i miei giocatori sono sempre i migliori al mondo, anche se non lo sono”.
Lezione 3 – Sviluppare la propria squadra
Per fare la differenza nella vita hai bisogno di allevare dei leader: non si può essere un gigante in mezzo a mediocri. Quando arrivò al Chelsea non c’erano star, ma solo buon materiale sul quale lavorare, molti talenti da rendere fruttiferi. Nel Chelsea è riuscito a trasformare giocatori di buon livello in campioni di fama mondiale.
La leadership riguarda la capacità di creare qualcosa dal niente, di tirare fuori il meglio da ognuna delle persone che si gestiscono e farle ottenere i migliori risultati. È la capacità di creare un Qualcuno da un perfetto signor Nessuno, attraverso un metodo di lavoro autorevole, disciplina rispetto a quel metodo, duro lavoro e meritocrazia che faccia crescere ogni singola individualità nel rispetto della competitività e dello spirito di squadra: “sono assolutamente contrario al vecchio adagio che dice: tutti dovrebbero essere trattati alla stessa maniera. Non è così. Siamo tutti diversi e tutti meritiamo un trattamento specifico.”
Lezione 4 – Mentalità vincente
“A certi livelli tutte le squadre si equivalgono e a fare la differenza molto spesso sono elementi psicologici e tattici più che quelli tecnici”, dice Mourinho. Allo stesso modo nelle nostre aziende una volta che è stata creata la squadra, che è stato inserito un metodo di lavoro e che tutti remano nella stessa direzione verso obiettivi importanti, perché la tensione verso quelle mete rimanga alta ed efficace serve un manager che sappia tenere viva la sfida, mantenere alto il morale e attrezzare il terreno delle sconfitte per recuperi rapidi. Nella fucina dei talenti bisogna saper forgiare uomini resilienti che abbiano elasticità e buona capacità di recupero sapendo distrarre da loro ogni pressione esterna per lasciarli concentrati al massimo sui loro obiettivi.
Se è vero che non esistono “superuomini, ma solo uomini che vincono più spesso di altri” fa riflettere anche il fatto che il “vincente non è chi vince, ma chi ha ancora voglia di vincere. Se ottieni qualcosa e continui a cercarla hai una mentalità vincente”.
Come i tifosi capita che anche i manager si lascino trascinare dall’estetica del gioco, del metodo e della disciplina applicata per il senso dell’ordine e del buon funzionamento. Ma ogni manager e ogni nostro collaboratore hanno come unico obiettivo quello di dare il proprio apporto perché la squadra nella quale gioca segni almeno un goal in più dell’avversaria. Quando si lavora per vincere non è importante l’estetica dell’azione ma il risultato ed il lavoro che si celano dietro al goal, per poter continuare il giorno dopo verso altri obiettivi, altre vittorie con strumenti migliorati di giorno in giorno.
3 commenti:
Molto interessante, ma certamente ad un milanista o ad uno juventino risulterà difficile distaccarsi nel giudizio. Certamente è un personaggio che ha fatto fare "un salto di paradigma" al suo contesto professionale italiano, abbastanza polveroso e stantio.
Geronimo
Concordo con Geronimo, infatti sono un milanista, fiero di esserlo e rimarrò tale, ma non ho scelto Ancellotti, bensì Maldini, Ambrosini, Gattuso, Pirlo, Kakà, ecc.
Ho scelto di credere nei GIOCATORI storici!!
Secondo quanto affermava Jack Welch è importante definire una direzione generale e dedicare le PERSONE GIUSTE mettendole all’opera con enfasi costante sul miglioramento continuo.
Secondo Watkins uno degli ingredienti principali per il successo di una fase di cambiamento risiede nella capacità del leader di adattarsi alla organizzazione in cui opera attraverso il riconoscimento delle proprie caratteristiche personali, la capacità di disciplina personale e la creazione di un gruppo di COLLABORATORI che sia coerente con le necessità organizzative e che completi eventuali carenze nella direzione.
Infine, secondo le quattro lezioni di Josè Mourinho:
– Creare un metodo;
– Voler bene ai propri GIOCATORI;
– Sviluppare la propria SQUADRA;
– Mentalità vincente dei GIOCATORI.
In conclusione, si parla sempre dei Leader, dei Caoch, dei Manager, ma non credete che alla base di tutto ci siano i Giocatori, le persone, i collaboratori?
Certo! E infatti vince chi ha Mou, Ibra, Cambiasso, Julio Cesar, paperon Moratti....Balotelli...I talenti insomma! Gli altri non sono ancora riusciti a sostituire i "vecchi metodi scorciatoia" per vincere, con la necessità di cercare e formare talenti...
Geronimo
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